di Marcello Pesarini
Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2024
Giorno della Befana, due del pomeriggio. Da un po’ di giorni si è instaurato un clima di nuvole che lacrimano e non lacrimano. Sono giorni in cui rimbalzano anche notizie sulle proteste nel carcere di Montacuto; le leggo regolarmente, da bravo volontario che è tornato ad occuparsi di carceri dopo anni nei quali qualcuno si è occupato di me, cioè mia moglie e la psicologa, perché nel volontariato e dintorni forse, invece dei tasti giusti, avevo pestato i piedi sbagliati. L’ho sempre detto che sono un attivista, ma con tanta volontà e senso della sofferenza ereditato da un’adolescenza dura che mi permette di sentire chi sta male, e preferirlo a chi sta bene. Una presunzione anche questa.
Suona il telefono, è Ilaria Cucchi. Mi dice “Lo so che è un giorno di festa (io stavo pensando all’amministratrice di sostegno di mio fratello) ma c’è da aiutare delle persone. Ieri si è suicidato un ragazzo a Montacuto (non lo sapevo, avevo letto le rivolte avanzare sotto la cenere ma non pensavo a ciò) e la madre mi ha telefonato, mi aveva già cercato di coinvolgere ma non sono arrivata in tempo. Ora c’è da confortarla, da trovare qualcuno che lo faccia, poi ci organizziamo con l’avvocato, eccetera”. Io dico che l’avvocato c’è, è quello di tanti anni fa che rappresentava la causa di Stefano Cucchi presso il Tribunale di Ancona. Lui accetta, si metterà in contatto con Ilaria. Io vado, dopo avere detto a mia moglie Nicoletta che vado, chiesto se vuole venire (avevamo iniziato nel 2000 con una visita a Fossombrone, poi di tutto) ma non ne ha voglia oggi. Mi seguirà da lontano, evitandomi di parlare troppo o troppo poco.
L’INRCA, ospedale principalmente per anziani ma con tutti i servizi, è vicino. Raggiungo l’obitorio, mi qualifico perché la salma è in una stanza chiusa e sorvegliata da un dipendente dell’ospedale. Mi qualifico; tutte le volte che mi sono dovuto qualificare è stato per una disgrazia, penso che per le feste sappiano già chi deve entrare e chi no.
Matteo è lì, sul letto avvolto anche male nei lenzuoli. Il padre, faccia schietta, capisce chi sono e mi stringe la mano. Gli parla, gli chiede perché l’ha fatto. Gli dice anche: “Hai fatto come sempre di testa tua, netto eh il taglio”. Mi guarda e mi fa vedere la stretta al collo, poi un po’ di macchie sul petto. Io non gli dico né sì né no. Guardo e mi viene da stringere i piedi di Matteo, 25 anni, i soliti capelli tagliati corti con mezza testa scoperta.
Ho imparato a considerarlo un taglio come gli altri, sotto al quale c’è una persona, come quando a noi negli anni 70 ci chiedevano se ci sentivamo donne per portare i capelli lunghi sulle spalle. Ha le labbra consumate, mi dirà poi la madre che se le era cucite per protesta più volte. Sono cose che conosco e non mi fanno paura quando le affronto. Piano piano mi sento come quando i miei genitori non andavano d’accordo e io, passate le prime notti nelle quali per protestare contro le loro assurde liti mi picchiavo la testa e la battevo contro il muro, avevo imparato a osservare i muri, gli angoli, a chiedermi perché quando si uniscono tre pareti non si veda la continuazione del lato verticale oltre al soffitto, nell’appartamento di sopra. Una speranza, un buco verso dei vicini che si accorgessero della nostra vita. Invece ognuno si faceva i fatti suoi, o così credevo.
Invece per Matteo è stato proprio così. Il padre continua a dire: “Non finirà così, non può essere stato così, lo devono spiegare. Aveva detto che si sarebbe impiccato, l’ha detto davanti agli agenti e a una o due altre persone. Aveva le carte che lo dicevano”.
Io penso che l’unica volta in cui avevo dato ragione a un detenuto, in pratica ho commesso l’errore di “caricarlo” contro il medico di quel carcere. Mi sentivo un cavaliere alle crociate, e invece avevo rischiato di “montarlo” contro i suoi superiori. Per una settimana, dopo quell’errore, ho avuto paura, ma quando ero tornato a colloquio, lui mi aveva rassicurato dicendo: “Ho capito cos’hai fatto, l’ho visto nei tuoi occhi, ma io sono forte”.
Mai più. Però lui non c’è più, anche se è qui, e la faccia è da angioletto. Arriva la madre, che ha chiamato Ilaria, che vuole fare un esposto alla Meloni. Una vera forza della natura, racconta tutte le patologie, bipolarità, farmaci. “Cosa gli hanno dato per tenerlo buono, aveva detto che aveva buttato giù qualcosa di amaro”. Io di farmaci, purtroppo me ne intendo, più per quelli che prendeva mia madre, che per quelli che prendo io. Il desiderio di abbracciarlo si fa più forte. Non posso sentirmi in colpa, perché con quest’abitudine di sentirmi in colpa in passato ho commesso più errori perché conosco il meccanismo, e magari è stato anche il suo, pur non essendo io stato classificato come lui dai medici. Il punto è un altro: di fronte alla vita, quando ti privano della libertà, e non sei tu a privartene, per gioco o per insipienza, un affronto brucia sulla pelle. Tu hai sgarrato di pochi minuti, mi dice la madre, Roberta, e per quei dieci minuti per rientrare alla residenza ti hanno messo dentro, e allora sei diventato un numero. Perché è così, cosa significa 100 o 99 per chi legge il giornale?
Nulla, è come ragionare di merendine vendute al supermercato.
Tu invece in una giornata facevi body-building, papà m’ha fatto vedere com’eri robusto, e anche la faccia da angelo. Non ti sto inventando Matteo, dico quello che vedo, quello che per strada tanti non vogliono vedere, e magari t’incoraggiano poi ti scaricano. Infatti Roberta, mamma, fra le grida e le lacrime, lo dice, che tu ti sei presa una colpa perché quell’altro aveva un figlio. Perché tu non sei un infame. Parla lei ma potrei parlare io, sono entrato in risonanza, nella giornata si compiono tanti atti, ma mentre io fuori mi posso fermare, tu anche se ti fermi non ti guarda nessuno.
E mentre lei telefona a Ilaria, senatrice, sorella di Stefano Cucchi, dice: “Mi faranno fare la fine di Stefano Cucchi, lo so”. E tu l’hai fatta. Il padre mi ha fatto vedere il torace, poi l’abbiamo ricoperto, la sorella dice: “Coprilo, coprilo, che prende freddo” e anch’io lo copro, cerco di scompigliare le lenzuola per ricomporle.
La sorella è piccola, ma la faccia è una lancia contro chi gli ha fatto male, i suoi occhi non trovano pace. La madre Roberta mi fa vedere le carte, Bipolare di tipo ----- non lo so, ma bisogna essere precisi. Hanno già chiamato l’avvocato, gli hanno mandato i primi esposti, la sorella di Roberta è andata a fare denuncia ai Carabinieri con la sorella id Matteo, ma io sto lì.
Ascolto le parti burocratiche ma so che le seguirà qualcun altro. Non riesco a capire come ci possa essere una cella d’isolamento senza finestre, giro le carceri dal 2000, e alle volte con permessi, personaggi, che dovrebbero poter vedere tutto. Ma evidentemente non è così.
La zia è più silenziosa, forse terrà lei i collegamenti con gli avvocati e con la senatrice, ma è un silenzio limitato. D’altra parte è limitato nei gesti e nelle parole anche il giovane operaio dell’obitorio, che non sta assistendo a una giornata di lavoro normale, ed ascolta i lamenti di Roberta, la madre.
Penso e ascolto, stringo i piedi di Matteo, ormai è un fratello. Lo so perché ho fatto di tutto nelle carceri, che i più truci vogliono sembrarlo, ed infatti lui è bianco, liscio, angelico. Sono sicuro che ascolta il rap e altre musiche di oggi che spesso piacciono a me perché, superata la barriera di non essere rock, né cantautori alla Guccini o Vecchioni, contengono lo stesso sberleffo e nei testi sono di nuovo dirette, non fintamente dirette come tante sguaiate che vengono spacciate per naturali.
Infatti Roberta mi dice che ascolta Ultimo, che io spesso chiamo Zero o Nullo. Ma ricomincia l’elenco da parte di Roberta la madre a proposito dei mille certificati che non sono stati ascoltati. E allora per un attimo esco idealmente dalla stanza, anche un po’ fredda per conservare Matteo, e mi scrivo un proposito, freddo anch’esso: Non possiamo fare tutti le stesse cose. Io sono capace di stare qui perché li amo, sono carne della mia carne, ma ho tanta paura della gente che si getterà su questo corpo, dai fini dicitori a quelli che sogneranno insurrezioni che non sanno gestire e non sanno neanche, spesso, di cosa parlano. Sono sincero, scrivo queste cose perché
non si scherza col fuoco, in questo mondo ci si tritura sempre di più. C’è chi spera che avvengano catastrofi per potercisi cacciare dentro a capofitto e colmare le proprie carenze. Invece Matteo avrebbe dovuto guardare la madre quando questa sarebbe stata vecchia, e non lo farà. Roberta vuole andare nella bara con lui, non ha senso continuare a vivere. Io tutte le volte che telefono in un carcere, per una bibliotecaria con cui organizzare un’attività o un pedagogo (non mi piace trattamentale) che ha chiesto un consiglio perché scrivo libri e mi piace farli leggere ai detenuti perché mi faranno domande certo più stimolanti che non nelle librerie, vengo passato da Ponzio a Pilato e retrofront. Solo per un’attività ludica, alla quale parteciperanno 8 persone mentre tutti gli altri non lo sapranno neanche. Loro hanno perso un figlio, ieri ha minacciato di ammazzarsi, oggi l’ha fatto, il giorno dopo forse lo porteranno via. Uno, non nessuno, e ce ne sono 60.000 in queste condizioni. Sono 25 anni che mi occupo di ciò, e ogni volta ci incontriamo solo ai funerali.
Non devo dire a Roberta, alla sorella, che devono andare là davanti al carcere e ammazzarli tutti, tanto non lo possono fare, ma cosa gli direi? Meglio non esprimersi, perché ci sono comportamenti, consuetudini, che non possono essere ammessi. Tu non puoi prendere uno stipendio per ignorare le lamentele, i pianti, le richieste di uomini e donne. Non c’è nessuna giustificazione; ricordo un detenuto, nessuno dica che sono ignoranti, che disse che un dottore aveva trasformato il giuramento di Ippocrate nel giuramento di Ipocrita.
Ecco, mi sta salendo la rabbia ma la trasformo in abbracci al padre, alla madre, ai piedi di Matteo. Guardo il cellulare sperando in una chiamata di un giornalista, la sorella di Matteo caccia un urlo. Io dico che non lo volevo fotografare, ma lei dice che la madre gli voleva aprire gli occhi.
Escono, entrano i parenti di un uomo chiuso nella bara. Noi facciamo loro le condoglianze quando siamo negli spazi comuni (come in carcere), ma quanto ci salutano loro. Nessuno che si rifiuti di farlo, secondo l’abitudine che cantava De Andrè “Dei suicidi non hanno pietà”.
“Coprilo, coprilo” dice sempre la sorella, con occhi disperati che non ho mai visto. Non li scorderò mai, sono un’altra famiglia per me, tanto non ho avuto famiglie tranquille, ho avuto momenti tranquilli, ma più che tranquilli pieni.
Anche Matteo ha avuto momenti pieni: portava le ruspe, i camion, i trattori, sgangherava le auto e la madre andava in giro con un semiasse fasullo.
A noi resta la pietà di chi non sa, ma ha visto una famiglia che ha perso un ragazzo di 25 anni, una pietà che, chissà perché, dentro molto spesso non hanno.
Ma ci sarà qualcuno che chiude tutti e due gli occhi, e ancora peggio molti che annuiscono dal basso. Non siamo governati a caso, ve lo dico a voi indifferenti.
Dopo il giornalista, accolto sotto la pioggia, arriva il momento di andare via. Mi sembra di convincere mia madre a venire via, solo che mia madre era più vecchia, questa è più giovane. Cicli e ricicli.
La mattina di due giorni dopo, la domenica non sono andato per motivi familiari miei, c’era il medico legale, l’avvocato, tutti loro. Ha confermato che ha sofferto pochissimo. Tutti vogliono sapere, ascoltiamo al freddo, vogliamo capire tutto, come sei volato via, come hai utilizzato le tue ultime energie.
Un dirigente dell’ospedale dice che il Pubblico Ministero ha ordinato il sequestro del cadavere.
Andiamo via, ma non ti lascerò Matteo.