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di Francesca Bormioli

Italia Oggi, 31 maggio 2022

In Europa il tasso di suicidio dei detenuti in attesa di giudizio è il doppio di quello dei detenuti condannati, rivela un’inchiesta collaborativa fra otto giornali europei coordinata da Civio.

“C’è una grande tristezza in prigione, mascherata da ostilità. Il dolore è visibile, chiaramente, anche nei volti di chi è più arrabbiato”. Questo messaggio e’ stato pubblicato sull’account Twitter di John McAfee il 10 giugno 2021. Tredici giorni dopo, il creatore dell’antivirus McAfee e’ morto nella sua cella, nel carcere Brians 2 di Barcellona, dove aveva trascorso otto mesi in detenzione cautelare, in attesa di estradizione negli Stati Uniti per diversi (e presunti reati) di evasione fiscale e mancato pagamento delle tasse. Poco prima del gesto, McAfee ha lasciato un biglietto nella sua tasca: “Visto che non posso viverlo pienamente, almeno voglio controllare il mio futuro, che non esiste”. Un’autopsia ha confermato il suicidio.

Nel 2021, secondo i dati dello studio SPACE del Consiglio d’Europa, 480 persone si sono suicidate nelle prigioni dei paesi dell’Ue: di queste, 172 si trovavano in detenzione preventiva. Si tratta di persone in attesa di giudizio: questo significa che la loro presenza in carcere non era dovuta ad una condanna definitiva. La prigione, specialmente quando si tratta di custodia cautelare, aumenta il rischio di suicidio: nel 2021, ci sono stati 17,5 suicidi ogni 10.000 detenuti in custodia cautelare, il doppio del resto della popolazione carceraria (8,54).

Per paese, i tassi piu’ alti si sono registrati in Repubblica Ceca (51 suicidi per 10.000 detenuti in custodia cautelare), Lettonia (50,3), Austria (47,3) e Francia (43,1). In numeri assoluti, le cifre peggiori sono state registrate nel 2021 in Francia, dove 175 persone si sono tolte la vita (77 di loro erano ancora in attesa di giudizio). Queste cifre non sono un problema isolato: uno studio, condotto in 24 paesi e pubblicato nel 2017 sulla rivista The Lancet Psychiatry, aveva gia’ messo in guardia rispetto all’alta prevalenza di suicidi nelle prigioni francesi.

“Non sapevo se sarei uscito, quindi ho messo le dita [nella presa] per provare, ma non e’ successo niente perche’ le prese erano protette, altrimenti sarebbe finita li’“, racconta al telefono Jose’ Luis, che ricorda con particolare durezza il periodo di detenzione preventiva nel carcere spagnolo di Picassent. Jose’ Luis ha trascorso in quel carcere un anno e diversi mesi in attesa di giudizio, fino a quando e’ stato trasferito nell’ospedale psichiatrico del carcere di Fontcalent, perche’ le accuse penali sono cadute a causa della diagnosi di schizofrenia, malattia di cui soffre.

Prima che la misura venisse decretata, la situazione di Jose’ Luis era molto complicata: “Avevo commesso un crimine, mi trovavo in uno stato d’animo pessimo, nella fase peggiore del mio disturbo. Non avevo una percezione chiara della realta’, ne conservo un ricordo orribile”. L’esperienza di Jose’ Luis non e’ unica, la maggior parte dei detenuti in detenzione cautelare affronta, stando alle parole dell’esperta Vanessa Michel, “il cataclisma dello sradicamento”. Michel, specialista al Secular Service of Aid to the Litigants and Victims (SLAJ-V) in Belgio, continua: “Penso che tutta questa incertezza crei molta ansia, un’ansia che e’ molto diversa dall’ansia che segue la condanna”. Essere in detenzione cautelare genera un’attesa incerta, nella quale i detenuti non sanno quando potranno comparire davanti al giudice o quando (e se) il mandato d’arresto potra’ essere revocato. Inoltre, da un giorno all’altro, devono abituarsi a un ambiente molto diverso da quello al quale sono abituati e che viene loro imposto, insieme a degli sconosciuti. Jose’ Luis, a questo proposito, ricorda di aver passato un periodo difficile a causa di problemi con altri prigionieri.

A questo si aggiunge la mancanza di controllo sulla situazione, di cui soffrono molte persone in attesa di giudizio. “Si passa dal pensare di avere il controllo sulla propria vita, all’essere improvvisamente controllati 24 ore al giorno e non avere assolutamente il potere di cambiare le cose. Quella sensazione di impotenza e’ molto dura da sopportare. Per me e’ la cosa peggiore del carcere”, spiega la psicologa carceraria María Yela, che ha lavorato in diverse prigioni spagnole e dove, dopo il pensionamento, lavora come volontaria. “Inoltre bisogna confrontarsi con il fatto di essere sospettato di qualcosa, l’insicurezza, l’imprevedibilita’ del futuro, e’ un’esperienza esistenziale”, aggiunge Eric Maes, ricercatore presso il dipartimento di criminologia operativa al National Institute of Criminalistics and Criminology (INCC) in Belgio.

La probabilita’ di suicidio, avverte l’Organizzazione Mondiale della Sanita’, aumenta durante le prime ore o giorni di detenzione. “Si tratta di un periodo molto, molto fragile, molto critico”, continua Maes. Quando fattori come l’isolamento improvviso, la mancanza di informazioni o un alto livello di stress si uniscono, e’ possibile entrare nel rischio di un comportamento suicida. Altre volte puo’ entrare in gioco la sindrome di astinenza, nel caso di detenuti che fanno uso di droghe, o l’impatto dei media, che possono anche influenzare le persone. “Abbiamo meccanismi di adattamento, che funzionano piu’ o meno bene e, con il passare del tempo, raggiungiamo un equilibrio, per quanto precario possa essere”, spiega Enrique Pe’rez, capo della sezione di psichiatria dell’Ospedale Generale di Alicante (Spagna) e consulente dei centri penitenziari di Villena (Alicante II) e Alicante I.

Essere in detenzione preventiva e’ uno dei principali fattori di rischio per i casi di suicidio. Lo dimostrano studi condotti nelle carceri in Francia, Norvegia, Catalogna (Spagna) e Germania. Di fronte a questo problema di salute pubblica, diversi paesi europei hanno messo in atto dei protocolli nelle prigioni, a scopo preventivo. Si tratta di programmi che possono includere misure come la rimozione di possibili mezzi o materiali con cui il detenuto potrebbe recarsi danno, un maggiore monitoraggio da parte di psicologi del carcere e l’assegnazione di personedi supporto, che diventano l’ombra della persona ritenuta a rischio di suicidio.

Nonostante il generale buon funzionamento di questi sistemi, paesi come la Francia non hanno ancora un protocollo efficace, come denunciato nel 2019 da uno studio che ha spinto per l’adozione del piano VigilanS nelle prigioni, piano rivolto, di base, alla popolazione generale.

Per Laure Baudrihaye-Ge’rard, direttore legale in Europa di Fair Trials, “va detto che nelle prigioni europee (in Francia e Belgio, in particolare) vigono condizioni orribili, profondamente degradanti: il suicidio da’ un vero significato a cio’ che questa condizione rappresenta, perdita di umanita’“. Baudrihaye-Ge’rard continua, aggiungendo: “Non sai dove ti trovi e le pressioni sono enormi. E poi c’e’ la mancanza di accessibilita’ dei detenuti. Voglio dire, pensate che in giro ci siano degli psichiatri? O psicologi che ti sostengono?”

Questa mancanza di risorse a cui fa riferimento Baudrihaye-Ge’rard riguarda anche le prigioni dove esistono protocolli contro il suicidio. “La percentuale di detenuti che sono assegnati a uno psicologo, o a qualsiasi altro professionista, e’ enorme. Non si puo’ lavorare cosi’“, racconta María Yela, psicologa penitenziaria.

L’esperienza di Jose’ Luis non e’ stata migliore: “A Picassent vedevo lo psichiatra per cinque minuti ogni tre mesi e in quel momento ti valutava e ti diceva ‘continua con i tuoi farmaci’“.

Anche per le persone che non hanno una precedente diagnosi di salute mentale, andare in prigione ha un enorme impatto psicologico che puo’ finire per pesare sulla situazione. Uno studio in Germania ha scoperto che i detenuti in attesa di giudizio sviluppano spesso disturbi di adattamento con sintomi depressivi, e occasionalmente, pensieri paranoici. Il verificarsi di questi problemi, secondo lo studio, mostra “la maggiore vulnerabilita’ psicosociale” dei detenuti.

La prevenzione del suicidio, tuttavia, rimane una questione molto complessa. “Gli esseri umani sono imprevedibili. Dobbiamo aiutare, cercare di fare prevenzione, ma e’ un comportamento che, se la persona vuole agire, non saremo in grado di impedire”, spiega María Yela. Secondo lo psichiatra Enrique Perez, anche il sostegno che i detenuti ricevono dall’esterno del carcere, e la vita che hanno condotto precedentemente, possono giocare un ruolo essenziale nella prevenzione di queste morti. Per Jose’ Luis, i mezzi per evitarlo erano fondamentali: “Se avessi potuto suicidarmi, l’avrei fatto”.