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di Viola Ardone

La Stampa, 27 maggio 2023

Venezia, anni 20: una ragazza intelligente e determinata si sacrifica per salvare il fratellastro ladro. Nelle celle della Giudecca incontra una coetanea e progetta con lei un futuro senza la “tirannia” dei maschi. “Resta con me, sorella”. Un titolo che è un settenario di speranza, un’invocazione, una preghiera laica. Il desiderio che s’inveri quel mito di “sorellanza”, di solidarietà femminile spesso evocato e molte volte tradito e disatteso nella realtà. Perché le donne non sono tutte sorelle, per il solo fatto di appartenere al genere femminile, come talvolta presuppongono gli uomini. Sono sorelle quelle che si scelgono, quelle che decidono di mettere in parallelo i propri destini, quelle che imparano ad amarsi e che non hanno bisogno di definire il loro amore in base a un canone imposto. Amiche, amanti, altro.

Dopo “L’animale femmina” e “Insegnami la tempesta”, Emanuela Canepa torna a esplorare l’animo umano. Stavo per aggiungere l’aggettivo “femminile” ma mi sono emendata, perché chi mette una lente sopra al cuore “per farlo vedere alla gente”, come diceva Aldo Palazzeschi a proposito del mestiere del poeta, non ha un campo d’indagine differente a seconda del genere a cui si accosta. Il cuore non ha un genere. Il cuore batte.

Questa volta Canepa ci porta indietro nel tempo, siamo negli anni Venti, tra Padova e Venezia. Lo scandaglio del passato recente, del nostro Novecento, è ultimamente un territorio molto frequentato in letteratura. Forse perché la distanza ormai giusta permette di mettere a meglio fuoco l’obiettivo della scrittura. O perché la cesura del Covid ha permesso di segnare un “prima” e un “dopo”. Ha infilato un segnalibro tra le pagine del tempo.

Anita Calzavara, pur provenendo da una famiglia modesta, ha avuto modo di studiare, ed è brava nei calcoli. Tanto è vero che dopo la morte del padre a causa della febbre spagnola, ha trovato un impiego nell’amministrazione di un quotidiano. Lavora in un modo di uomini e sa che per sopravvivere ha bisogno di usare delle cautele. Non trovarsi da sola con uno di loro, soprattutto se è tardi, non lasciare l’ufficio per ultima la sera, nemmeno per ultimare un lavoro urgente, non esporsi al giudizio, non essere ricattabile per la propria vita privata. Essere donna a quei tempi, insomma, era un lavoro a tempo pieno. Forse lo è anche oggi, in modo differente.

Ma a volte i guai arrivano anche se uno non se li va a cercare, come dice Lucia Mondella a conclusione della propria odissea, che in qualche modo racconta la stessa storia, una storia antica come il mondo, dalla mela dell’eden in poi: quella della disparità di genere. Lucia rifugge un molestatore altolocato. Anita subisce le prevaricazioni del fratellastro, Biagio, figlio di secondo letto di suo padre, che ha lasciato orfani lei e i suoi fratelli insieme alla seconda moglie.

Anita non si perde d’animo e trova, dicevamo, un impiego, ma nello stesso posto lavora anche il debosciato fratello che progetta un furto ai danni del giornale. Anita se ne accorge e cerca di convincerlo a desistere, ma senza successo. Quando l’ammanco di cassa viene scoperto, è lei a prendersi la colpa e a finire in galera. Per quale motivo? Perché a quei tempi un uomo guadagnava di più di una donna e Biagio avrebbe provveduto alla famiglia meglio di lei. E perché forse, dopo l’arresto di Biagio anche lei sarebbe stata licenziata. O perché vive in un tempo in cui alle donne è stato insegnato a far buon viso, a sacrificarsi per un figlio, un marito, un fratello, una sorella ancora giovane che rischia di vedere sfumare il suo futuro.

Oppure perché è forte. Ecco, Anita è un vaso di ferro in mezzo a vasi di terracotta, per rimanere dalle parti di Manzoni. Non gonfia i muscoli, non si ribella, non fa proclami, ma agisce la sua forza come se fosse una cosa normale. Arriva alla Giudecca, si fa l’isolamento e la galera. Entra nelle grazie delle sorveglianti perché è laboriosa e affidabile, e quando viene messa fuori le porte della vita le si spalancano di nuovo. Ma quale vita? Il matrimonio, i figli, vivere nello spazio circoscritto dei bisogni di un uomo, nelle regole striminzite della società? È vero che la prigione è un luogo chiuso, eppure le ha insegnato a stare larga, a scegliere per sé, a badarsi da sola.

Anita non lo sa, ma stando rinchiusa ha perso la paura. Ora è una donna libera. Ha incontrato Noemi, una che come lei si è ritrovata dentro per aver messo un piede in fallo in un mondo che ti impone di rigare dritto, se sei una donna. Insieme a lei ha fatto un progetto che forse non realizzerà. Non è questo che importa, importa aver immaginato di poterlo fare. “Pensati libera”, ha detto la più nota femminista dei nostri tempi, o forse solo la più grande comunicatrice. Anita quando esce dal carcere si è cucita addosso quello stesso scialle e non ora riesce più a toglierselo. La libertà è come un tarlo che non ti lascia stare e che ti condanna alla solitudine, piuttosto che a una brutta compagnia. Eppure in questa solitudine noi siamo con te, Anita. Resta con noi, sorella!