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di Ilaria Gaspari

Corriere della Sera, 22 maggio 2023

La scrittrice Emanuela Canepa sceglie il romanzo storico e ci porta negli Anni 20: la disparità di stipendio fa da innesco alla trama. E poi l’idea che, quando trasgredisce, la donna sbagli due volte: rispetto alla legge e all’immaginario.

Emanuela Canepa, in libreria per Einaudi con il suo terzo romanzo, “Resta con me, sorella”, è una scrittrice (con il suo esordio, “L’animale femmina”, ha vinto il premio Calvino); di formazione, però, è una storica. Nel nuovo libro, ambientato nella Venezia degli Anni 20, le due vocazioni si intrecciano nel racconto delicato e meticoloso della vicenda di Anita: giovane donna che, per il bene della famiglia che da sola non potrebbe mantenere, accetta di finire in prigione pur da innocente, pagando il fio della colpa di un fratellastro inetto. Ma nel carcere della Giudecca la sua vita cambierà.

Pensa che la scelta di dar voce a un piccolo coro di donne nasca in qualche modo dai suoi studi?

“Il fatto è che le donne mi sembrano sempre, nelle dinamiche relazionali, straordinariamente interessanti perché sfumate. Nel bene e nel male. A dire la verità, la cosa mi crea anche dei problemi. Mi sento domandare spesso: ma ce l’hai con gli uomini? Perché li rappresenti così poco, nei tuoi romanzi? Non ce l’ho assolutamente con gli uomini, il fatto è che se si può scegliere quello che si legge, non si sceglie quello che si scrive. E nella mia testa emergono sempre storie di donne. Probabilmente poi anche da lettrice ho una certa ossessione... ecco, alla fin fine forse non scegliamo neanche quello che leggiamo. Oggi studiamo la storia con un’ottica molto diversa da quella che si applicava cinquant’anni fa: non si può più non notare quanto poco le donne siano rappresentate, quindi il desiderio di rileggerle anche in chiave storica significa mettersi in contatto con voci che non hanno mai risuonato”.

Che metodo di lavoro ha seguito per imbastire un romanzo storico?

“L’unica cosa che avevo chiara quando ho deciso di scrivere un romanzo storico era l’ambientazione: Venezia. Poi ho cominciato a documentarmi e mi ha colpita la questione della disparità dei compensi fra uomini e donne, che peraltro nel corso dell’ultimo secolo si è attenuata ma è tutt’altro che risolta. Era un vero e proprio paradigma: la più specializzata delle operaie cent’anni fa guadagnava comunque sempre meno del più generico degli operai maschi. Ricordo una dichiarazione di Anna Kuliscioff proprio su questo tema: perché le mani di una donna devono produrre meno ricchezza, quando empiricamente sappiamo che non è così? Da questa constatazione di ingiustizia è nata la storia. Io sono molto devota alla storia: al di là di qualunque cornice, non voglio mandare messaggi, voglio raccontare”.

E come mai proprio Venezia?

“Venticinque anni fa, quando mi sono trasferita da Roma a Padova, per un anno intero ho studiato Venezia per prendere il patentino di guida turistica. A lasciarmi esterrefatta non era tanto l’arte, che pure mi riempiva di meraviglia, quanto la storia di Venezia: la Repubblica Veneziana, la sua modernità impressionante. L’unico, grandissimo Stato nazionale che abbiamo avuto in Italia, in tutta quella frammentazione di staterelli sottomessi a varie autorità, stranamente rimane un argomento periferico nei curricula scolastici. E mi interessava particolarmente un certo torno di anni, gli anni Venti di un secolo fa, il momento del grande sviluppo industriale, di Porto Marghera, ma anche dello sviluppo turistico. In quegli anni viene inventato per Venezia proprio un modello economico, da una classe di imprenditori il più famoso dei quali, Volpi di Misurata, ha creato il Festival del cinema”.

Com’è stata la ricostruzione di un ambiente poco raccontato come il carcere della Giudecca?

“Facendo ricerche per questo libro ho avuto la conferma di una cosa che ho sempre saputo, avendo lavorato in una biblioteca universitaria per vent’anni: i bibliotecari sono persone tendenzialmente entusiaste. Ho scritto mail generiche con richieste di informazioni in cambio delle quali, spesso nel giro di qualche ora, ho ricevuto la scannerizzazione di documenti d’epoca preziosi e inestimabili. Le carceri femminili hanno avuto sempre un’organizzazione che intercetta un’altra mia passione narrativa: le suore. Pur non essendo cattolica mi trovo sempre a mio agio nell’ambiente dei monasteri, sarà l’eredità di qualche antenata? Le suore hanno gestito le prigioni femminili fino a epoche recentissime: dalla Giudecca sono andate via nel 1996. Questo aspetto risponde a un paradigma interessante: l’idea che la donna che trasgredisce la legge pecca due volte, a differenza dell’uomo. Come se venisse meno a un obbligo di coerenza rispetto a un immaginario. Lombroso, in testi che oggi fanno sorridere ma all’epoca erano presi molto sul serio, sostiene che la donna che viola la legge è quasi più in difetto rispetto alla morale che rispetto alla legge stessa. In questa logica, la presenza delle suore nel carcere ha una funzione di rieducazione morale. Certo, si dice che il problema del contenimento della violenza, fra le detenute, è meno grave. Ma se questa doppia morale fosse stata ritenuta valida anche per gli uomini, nelle carceri maschili ci sarebbero stati i guardiani laici, e pure i sacerdoti. Non era così”.

Sente di essere uscita trasformata dal suo ruolo di narratrice, e in un certo senso di testimone di questa storia?

“Mi sono divertita follemente. Nel lavoro di ricerca e documentazione ho potuto mettere insieme tutto quello che sono: storica, poi bibliotecaria, per la prima volta ho usati strumenti bibliografici che conosco bene per una mia ricerca personale. Penso che avrei potuto continuare a documentarmi per anni, solo per il puro piacere di farlo. Perché l’affastellamento della conoscenza è autopoietico: più documentazione metti insieme più nascono idee. Il capitolo che forse ho amato di più è quello in cui Anita va a vedere la salma del Milite Ignoto che sosta alla stazione di Venezia, la notte del 28 ottobre 1921, in viaggio da Aquileia verso Roma. Io di questa storia non avevo idea, ma mi son detta: quasi quasi mi vado a sfogliare i periodici dell’epoca, tanto per capire quali erano gli argomenti che si discutevano a Venezia in quei giorni. Inizio a sfogliare i giornali e mi trovo di fronte alla notizia. Ho dovuto assolutamente aggiungere la scena, immaginare l’emozione, il fermento della città. Insomma, non escludo, da qui in poi, di scrivere solo romanzi storici...”.

È il miracolo della serendipità, che trasforma le coincidenze in piccole epifanie?

“Penso di sì... è successo anche con il titolo del romanzo. Il primo argomento che sono andata ad approfondire è stata l’epidemia di spagnola, forse anche perché ho iniziato a scrivere il romanzo in piena emergenza Covid. Mi sono imbattuta nella storia di una crocerossina, Margherita Kaiser Parodi, partita diciottenne per raggiungere l’esercito, primo focolaio dell’influenza: contagiata anche lei, è morta a vent’anni. È l’unica donna che riposa nel sacrario militare di Redipuglia, dove sono sepolti oltre 100.000 morti della Grande Guerra. Sulla sua lapide ci sono due versi che mi hanno colpito moltissimo; per due terzi sono bruttissimi, la classica retorica carducciana. Il terzo emistichio, non riesco a dirlo senza commuovermi: A noi, fra bende, fosti di Carità l’Ancella/ Morte fra noi ti colse./ Resta con noi, sorella. Non l’ho potuto più dimenticare, quell’abbraccio dei soldati all’unica donna seppellita con loro”.