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di Filoreto D’Agostino

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2023

Il caso Cospito è segnato sia da attentati e proteste dei fiancheggiatori sia dal dibattito sul 41-bis, evolutosi in Parlamento, sul modello teatrale, con toni degni delle opere di Harold Pinter e Yasmina Reza, nelle quali si passa da relazioni apparentemente tranquille ad aspre contese. Lo scontro deriva dal pellegrinaggio sardo del 12 gennaio (sei giorni dopo quello dei re magi) di quattro parlamentari democratici non per onorare Sant’Efisio, ma per incontrare Cospito.

La condiscendente soggezione alle richieste dell’anarchico di ascoltare prima terroristi e mafiosi soggetti al medesimo regime, divulgata dal sottosegretario Del Mastro, il messaggio pro reo dell’ex ministro Orlando hanno sicuramente animato la rappresentazione parlamentar-teatrale. L’opposizione chiede le dimissioni del sottosegretario, l’operato del quale sarà vagliato dalla magistratura.

Va tuttavia riconosciuto che, senza quell’apporto, la grave vicenda del pellegrinaggio sardo rimarrebbe fatalmente ignorata, impedendo così di saggiare la credibilità del Pd sulla questione. Sempre il 12 gennaio il legale di Cospito presentava istanza di revoca dell’applicazione del 41-bis. Per quanto consta, l’istanza non ha ancora ricevuto risposta mentre si proclama doverosamente che lo Stato, seppure sotto attacco, non cederà a ricatti di terroristi e mafiosi. Sta di fatto che da quella data Cospito attende una risposta relativa esclusivamente al suo caso e non al proclamato tentativo di far abrogare il 41-bis, che richiederebbe non un decreto ministeriale, ma un atto legislativo ad hoc. In quest’ultimo caso i riferimenti teatrali riguarderebbero Samuel Beckett: un testo abrogativo, redatto da un governo evidentemente in crisi autodistruttiva, richiede comunque la sottoscrizione del presidente della Repubblica (e anche del Csm), la cui attesa supererebbe probabilmente quella di Godot.

È perciò opportuno incentrare l’attenzione sulla richiesta di revoca. Si rammenta che il decreto del Guardasigilli ex art. 41-bis reca una misura di sicurezza, cioè un provvedimento amministrativo dal quale scaturisce il severo trattamento carcerario. Il ministro non opera da giudice, ma da autorità che agisce a tutela della sicurezza pubblica sui rapporti tra carcerati e mondo esterno, intangibili dal ministero dell’Interno, primario titolare di quelle funzioni, perché il loro esercizio implicherebbe un’ingerenza sull’apparato giudiziario.

Il compito del Guardasigilli consiste nello stabilire se il detenuto possa intrattenere dal carcere rapporti con organizzazioni malavitose e terroristiche e continuare così nell’attività criminale. Gli elementi di giudizio sono pertanto il reo, l’eventuale percorso riabilitativo e l’obiettiva sussistenza e qualità di collegamenti con associazioni criminali: il margine di discrezionalità del ministro si riduce drasticamente. In un frangente così delicato ci vuole quasi un mese o forse più per decidere i dati valutativi. Una tempestiva decisione avrebbe eliminato la materia del contendere in caso sia di diniego sia d’accoglimento.

Una motivata reiezione, infatti, qualificherebbe l’eventuale prosecuzione del digiuno come azione di esclusiva autoresponsabilità del detenuto, non legittimata dall’aspettativa di una modifica del regime carcerario, e toglierebbe spazio argomentativo anche a sterili obiezioni sulle particolari condizioni carcerarie. Chi vi è finito ha fatto una scelta di vita contro valori umanitari. La morale è che la vicenda propaga sintomi equivoci anche per l’inadeguata azione del ministro Nordio, dal quale ci si aspetterebbe, anche in ragione della sua lunga permanenza in magistratura, una maggiore solerzia per un atto di specifica competenza. Anziché limitarsi alla retorica litania sullo Stato che non cede ai ricatti, il ministro asseveri tale principio con i fatti e l’operosità che il suo alto ufficio impone.