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di Guido Caldiron

Il Manifesto, 10 ottobre 2023

Parla lo scrittore israeliano, tra le figure più rilevanti della nuova letteratura del Paese. I suoi romanzi affrontano a vario titolo temi e momenti decisivi della storia israeliana, la sua ultima opera pubblicata in Italia è “Le diciotto frustate”, edito da Giuntina nel 2019. “Nel Paese dominano due sentimenti: chi invoca una reazione dura e altri che sono arrabbiati con Netanyahu e il suo governo che ci ha portati a questo e lo invitano a dimettersi. Le priorità? Ristabilire la sicurezza a Sud, impedire che la guerra si espanda a Nord. Riportare tutti gli ostaggi a casa. E poi la cosa più difficile: cercare una soluzione diversa al conflitto”.

Tra le figure più rilevanti della nuova letteratura israeliana, Assaf Gavron, nato nel 1968 ad Arad nel Sud del Paese, è noto per le sue posizioni di sinistra e in favore della pace. Della sua vasta produzione, in Italia sono stati pubblicati i romanzi La mia storia, la tua storia (Mondadori, 2009) e, da Giuntina, Idromania (2013), La collina (2015) e Le diciotto frustate (2019) che affrontano a vario titolo temi e momenti decisivi della storia israeliana.

Partiamo dal suo stato d’animo, l’abbiamo vista commuoversi mentre parlava in tv: cosa prova in questo momento?

Dopo lo shock iniziale, è comunque difficile tornare a concentrarsi sulla vita quotidiana. Tutto sembra sconnesso e sottosopra. E c’è ancora molta incertezza su dove si andrà e quanto tempo ci vorrà. Dal Sud del Paese continuano a riversarsi su di noi delle storie terribili e credo che andrà avanti così anche nel prossimo futuro. La situazione degli ostaggi influenzerà tutto, ma l’intero contesto resta ancora molto confuso.

Guardandosi intorno, quale le sembra sia il sentimento dominante tra i suoi concittadini e quali le domande o le richieste che le persone pongono in questo momento?

Per dirla semplicemente, direi che si esprimono soprattutto due sentimenti. C’è chi invoca vendetta e che “si spiani a zero Gaza” e altri che sono arrabbiati con Netanyahu e con il suo governo che ci ha portati a tutto questo, dopo che fin dall’inizio ha prodotto problemi, e che lo invitano a dimettersi.

Netanyahu ha annunciato una reazione dura contro Hamas e Gaza, non le chiedo cosa si aspetta possa succedere, ma cosa vorrebbe facesse il governo israeliano e di cosa crede ci sia più bisogno?

La cosa di cui ora c’è più bisogno è ristabilire la sicurezza per la popolazione del Sud del Paese e impedire che la guerra si espanda a Nord. L’esercito deve prendere il controllo dell’area e respingere Hamas a Gaza. In secondo luogo, affrontare la situazione degli ostaggi e riportare tutte le persone a casa, anche a caro prezzo. In terzo luogo, c’è la cosa più difficile, e forse impossibile, vale a dire cercare una soluzione che non sia basata sulla forza. Perché abbiamo provato con la forza per troppi anni, ma non ha funzionato.

A poche ore dall’attacco di Hamas gli organizzatori hanno rinunciato alle manifestazioni previste contro la riforma della giustizia di Netanyahu e l’opposizione si è stretta ai vertici del Paese: tra le vittime di quanto accaduto c’è anche il movimento di protesta?

Non penso che quelle proteste siano così rilevanti in questo momento, perché stiamo lottando per la sopravvivenza. E quando la situazione si sarà calmata forse non ce ne sarà più bisogno perché credo che questo governo non sopravvivrà e, se anche lo farà, non oserà più promuovere quella riforma giudiziaria.

In molti evocano la guerra dello Yom Kippur del 1973 e il modo in cui anche all’epoca Israele non vide arrivare la minaccia: la dimostrazione che un sistema sofisticato di controllo e il peso che i militari hanno nel Paese non è servito a proteggere le persone, spingerà ad affrontare altrimenti il confronto con i palestinesi?

Lo spero. Anche se penso che ad un altro modo, non basato sulla forza, di affrontare le questioni. non credano abbastanza israeliani. Troppi miei concittadini credono che il ciclo infinito della vendetta sia l’unico modo possibile per vivere qui. Forse il 7 ottobre 2023 spingerà da questo punto di vista a qualche cambiamento, affinché sempre più israeliani si convincano del contrario.

Per scrivere “La collina” ha frequentato un insediamento di coloni nei Territori occupati: quanta parte del problema è rappresentato da tali realtà e come riassorbire queste spinte messianiche all’interno della società israeliana?

Rappresentano gran parte del problema. Credo che gli insediamenti e il sostegno che hanno avuto da parte del governo negli ultimi dieci mesi (un esecutivo che rappresenta l’altra faccia della medaglia che schiacciando i palestinesi) siano una delle ragioni principali dell’attacco di sabato. Spero che ora ci libereremo dei ministri-coloni. Ma il dialogo con i palestinesi potrebbe richiedere più tempo.

Anche in questo momento tragico gli scrittori e gli intellettuali israeliani esprimono opinioni di buon senso e che guardano alla pace, ma quanto sono ascoltate le loro voci in una società che si è data un governo di estrema destra?

Come dicevo, probabilmente la maggior parte degli israeliani cerca vendetta dopo aver visto l’orribile barbarie dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani: bambini, donne, anziani. Ma penso anche che la maggior parte degli israeliani sappia che questo governo è inutile, estremista e pericoloso - sono stati loro a provocarci questo disastro - e che quindi la nostra voce venga ascoltata.