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di Stefania Maurizi

Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2022

Vietati alla stampa i documenti sul caso. Per Canberra rendere noti gli scambi con gli Usa sul giornalista in carcere è dannoso per le relazioni tra i due Paesi.

La stampa non ha diritto ai documenti del caso Julian Assange, perché se diventassero pubblici danneggerebbero le relazioni internazionali dell’Australia o potrebbero rivelare informazioni comunicate da un governo straniero in modo confidenziale. Così ha deciso l’Administrative Appeals Tribunal di Canberra in risposta alla nostra battaglia legale per ottenere la documentazione dal ministero degli Esteri australiano. Questa sentenza è solo l’ennesimo muro di gomma per impedire al Quarto Potere di scoprire cosa è accaduto dietro le quinte del caso Assange e WikiLeaks. Un caso che deciderà i confini della libertà di stampa nel mondo occidentale e che è costellato da gravi violazioni, come la rivelazione che la Cia guidata da Mike Pompeo aveva pianificato di rapire o uccidere il fondatore di WikiLeaks.

Julian Assange rimane incarcerato nella prigione più dura del Regno Unito, quella di Belmarsh a Londra, in attesa che la giustizia britannica si pronunci sul suo appello contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni per aver ottenuto e pubblicato i documenti segreti del governo americano sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, sulla diplomazia statunitense e sui detenuti di Guantanamo. Da Amnesty International all’International Federation of Journalists, tutte le più grandi organizzazioni per i diritti umani e per la libertà di stampa hanno chiesto che non venga estradato e che sia liberato.

Assange, che è cittadino australiano, è stato detenuto arbitrariamente, come ha stabilito il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite. È stato torturato psicologicamente, come documentato dall’ex Relatore Speciale Onu contro la Tortura, Nils Melzer. È stato spiato all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador, dove è rimasto confinato fino al suo arresto e al suo trasferimento in carcere a Belmarsh. E la Cia ha pianificato di ucciderlo. Solo un’indagine indipendente può ricostruire in modo rigoroso questi fatti e le responsabilità delle autorità coinvolte. Ma è necessario accedere ai documenti. Chi scrive cerca di ottenerli da ben sette anni con il Foia, lo strumento che consente ai cittadini di consultare la documentazione del governo di interesse pubblico.

Quattro nazioni - il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Australia e la Svezia - si oppongono al rilascio di questi documenti, costringendoci a una battaglia legale su quattro giurisdizioni, in cui siamo rappresentati da ben sette avvocati. Un processo tremendamente difficile e costoso, ma grazie al quale sono emersi alcuni fatti importanti e a dir poco sospetti. Nel Regno Unito, ad esempio, abbiamo scoperto che le autorità del Crown Prosecution Service hanno distrutto documenti chiave su Assange e da ben cinque anni rifiutano di fornire spiegazioni su cosa hanno distrutto esattamente, su ordine di chi e come. Anche in Svezia - dove il fondatore di WikiLeaks è stato indagato per stupro, indagine ormai chiusa e che non ha mai portato alla sua incriminazione - è stata distrutta almeno un’email proveniente dall’Fbi. Nel corso della nostra battaglia legale, le autorità svedesi hanno ammesso che l’email era stata inviata da un funzionario di alto livello dell’Fbi, ma, soprattutto, hanno negato risolutamente di essere in possesso di migliaia di pagine di corrispondenza che il Crown Prosecution Service ha dichiarato al giudice di aver scambiato con loro.

Quanto all’Australia, si è rivelata la peggiore giurisdizione tra le quattro, in termini di trasparenza del governo. A gennaio del 2018, abbiamo presentato una richiesta Foia al ministero degli Esteri dell’Australia (Dfat), chiedendo copia dell’intera corrispondenza sul caso Assange dal 2016 al 2018 tra il ministero australiano e quello inglese, il Foreign Office, e quello americano, il Dipartimento di Stato. Le autorità australiane ci hanno rilasciato solo 24 pagine completamente censurate, a eccezione di pochissime parole qua e là, che non permettono di ricostruire una sola conversazione. Abbiamo provato per quattro anni a ottenere i documenti, senza risultato. Alla fine abbiamo citato in giudizio il ministero degli Esteri, rappresentati da due avvocati australiani di alto profilo: Peter Bolam e Greg Barns.

Ora, però, l’Administrative Appeals Tribunal ha dato ragione al ministero degli Esteri. In un verdetto appena emesso dal vicepresidente, Mr. B.W. Rayment, il Tribunale ha stabilito che la stampa non ha diritto di accedere alla documentazione sul caso Assange, perché il rilascio della corrispondenza tra le autorità di Canberra e quelle di Londra e Washington danneggerebbe o potrebbe danneggiare le relazioni internazionali del Commonwealth - l’organizzazione di stati che trae origine dall’impero britannico e di cui fanno parte il Regno Unito e l’Australia - o potrebbe portare alla rivelazione di informazioni comunicate confidenzialmente da un governo straniero.

Colpisce che le autorità di Canberra abbiano blindato in questo modo i documenti riguardanti un giornalista australiano che la Cia pianificava di ammazzare in modo stragiudiziale. I contribuenti australiani e, più in generale, l’opinione pubblica mondiale non hanno il diritto di sapere se il governo australiano era stato informato di quei piani, se li approvava o meno?

Il Fatto Quotidiano ha chiesto al ministero degli Esteri dell’Australia se abbia mai preteso spiegazioni dal governo americano. Il ministero non ha risposto alla nostra domanda, ma ha commentato: “Il Dipartimento degli Affari Esteri e del Commercio è informato degli articoli di stampa sulla questione. Il governo australiano continua a monitorare attentamente il caso di Julian Assange. Il governo ritiene che il caso di Mr. Assange si sia trascinato troppo a lungo e dovrebbe essere risolto”.

Dopo quasi un decennio di governi di destra, l’Australia ha un primo ministro progressista: Anthony Albanese, che ha origini italiane. Tra i sostenitori della libertà di stampa e dei diritti umani sono in tanti a chiedere una svolta sul caso Assange e a guardare con speranza ad Albanese. Il mese scorso anche l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha ricevuto il team legale di Assange e ha messo in guardia l’opinione pubblica dalla sua estradizione, dichiarando anche di essere “preoccupata per la sua salute fisica e mentale”.

aggior fautore, l’ex presidente Ali Akbar Rafsanjani.