sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Lorenzo Zilletti*

Il Dubbio, 5 gennaio 2024

La vittima è la Costituzione. Sì, avete letto bene, sulla e c’è un accento. Si tratta di un accento grave, come giuridicamente, culturalmente e politicamente grave è quello che il senatore Balboni (FdI), in compagnia di un variopinto rassemblement di parlamentari (dal piddino Parrini, al grillino Marton, al rossoverde De Cristofaro), vorrebbe apprestarsi a fare sull’articolo 111 della Costituzione: introdurvi la figura della vittima.

L’iniziativa preoccupa, ma non sorprende. Come insegna l’ultimo lascito di Filippo Sgubbi, nell’epoca del diritto penale totale - quella dove si punisce senza legge, senza verità e senza colpa - la vittima ha mutato codice genetico. Da persona offesa dal reato, le cui sacrosante aspirazioni a vederne perseguito il reale colpevole sono affidate alla mano pubblica dei rappresentanti dello Stato, si è trasformata in un “eroe moderno, ormai santificato”. Il credito morale di cui gode “rende sempre giusta la sua causa”, le sue aspettative “diventano fonte di responsabilità penale”.

In funzione della tutela delle vittime, nell’ambito del procedimento - e quindi dopo che un fatto è accaduto - sempre più di frequente il giudice elabora il contenuto dei precetti penali, ridisegnando il perimetro dei reati e così dando vita a un nuovo genere di processo politico, in cui la sua indipendenza e imparzialità sono irrimediabilmente compromesse. Spalleggiata dai media, la voce “intimidatoria” delle vittime, scavalca l’ambito risarcitorio e aspira a determinare la sanzione, reclamando pene più severe. Né si ferma allo stretto ambito del processo, invocando sanzioni sociali extrapenali (per esempio l’interdetto a ricoprire incarichi pubblici, per i congiunti di mafiosi o per il condannato che abbia integralmente espiato la propria pena) o pretendendo di incidere perfino sulle modalità di esecuzione della pena (non in quel carcere; non tramite misure alternative).

Le crude diagnosi di Sgubbi trovano conferma nell’analisi di chi studia la procedura penale e denuncia i tradimenti di un Codice che, già prima della cosiddetta riforma Cartabia, aveva subìto in trent’anni di vigenza “1352 interventi di modifica, di media 45 all’anno, quasi 4 ogni mese, 1 alla settimana”. Nella prassi, ricorda Oliviero Mazza, la vittima ha assunto un inopinato ruolo centrale sulla scena processuale, a spese della presunzione d’innocenza costituzionalmente tutelata: funzione del processo è accertare se un reato fu commesso e se l’imputato ne è effettivamente il responsabile; illogico è perciò accreditare preventivamente la vittima di uno status - quello di persona che ha subìto il reato - che dev’essere ancora dimostrato. Ciononostante, son sotto gli occhi di tutti le limitazioni sempre più stringenti che l’azione combinata del populismo legislativo e giudiziario hanno inferto al metodo dialettico: si pensi, a titolo esemplificativo, all’assunzione della testimonianza dei soggetti cd. deboli, dove - ancora Mazza - debole diventa la prova.

Il vittimocentrismo imperante muove, non a caso, all’attacco dell’articolo 111 della Carta fondamentale, una norma ampliata a larghissima maggioranza nel 1999 per assicurare al Codice di procedura repubblicano l’ombrello della tutela costituzionale, rafforzare le garanzie dell’accusato ed elevare a regola aurea il principio del contraddittorio. Dietro la suadente e irrealizzabile promessa di non voler limitare i diritti dell’indagato/ imputato, ma soltanto di equipararvi quelli della vittima, si nasconde un equivoco di fondo, non sempre inconsapevole: nei sistemi giuridici di quello che un tempo si chiamava il mondo libero, la vittima non è parte del processo; o lo è, in taluni di essi, solo eventualmente ed al ristretto fine di esercitare la pretesa risarcitoria privatistica, “sfruttando” l’occasione pubblica del giudizio penale. La contesa penalistica è un affare tra lo Stato e il cittadino, tra il pubblico ministero e l’imputato, che si svolge (o dovrebbe svolgersi) davanti a un giudice terzo e imparziale.

Siamo all’abbiccì della storia del mondo occidentale, della sua evoluzione dal sistema della vendetta privata a quello della pena pubblica, ove la risposta sanzionatoria è immaginata per finalità che trascendono le esigenze della vittima. E dove, con buona pace di un altro alfiere del vittimocentrismo, il senatore Scarpinato (che auspica “un riorientamento dell’intero sistema giustizia, oggi orientato tutto dal punto di vista dell’indagato”), il diritto penale e processuale penale assumono una dimensione essenzialmente garantistica e di delimitazione del potere punitivo.

Rassicuriamo gli inquilini di Palazzo Madama: non c’è bisogno di leggere Hassemer per sapere che “senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe neppure lo Stato moderno. La neutralizzazione della vittima del reato comporta infatti niente meno che il monopolio della violenza da parte dello stato nell’amministrazione della giustizia penale. Questi due elementi vanno di pari passo”. Basterebbe conoscere qualche riga del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

*Avvocato in Firenze