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di Leonardo Coen

Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2024

Da Pisciotta a Sindona, e il caso tedesco della Raf. Noi italiani non dovremmo poi così tanto sorprenderci di ciò che è successo ad Alexei Navalny, e della sua morte in circostanze a dir poco misteriose. Nelle nostre prigioni, infatti, è già successo con detenuti eccellenti e destabilizzanti. Il fine giustifica i mezzi. I russi si affidano al Grande Gelo. Noi, alla tazzulilla di caffé. Questione di cultura. Il caffè tira su. Ma anche giù. Può affossare. Come sperimentò Gaspare Pisciotta, compare di Salvatore Giuliano, i banditi della strage di Portella della Ginestra, in Sicilia: 11 morti (anche bimbi) e 27 feriti. I contadini celebravano il Primo Maggio del 1947 e la vittoria del Blocco del Popolo.

Chi erano i mandanti? La strage era frutto di indicibili rapporti tra mafia, banditismo, potere politico, potere economico. Pisciotta ne era testimone. Lo arrestano il 9 dicembre del 1950: “I banditi io li catturo vivi”, dichiarò polemico Carmelo Marzano, questore di Palermo. Allusione alla farlocca esecuzione di Giuliano, la notte del 7 luglio a Castelvetrano, “di sicuro c’è solo che è morto”, scrisse Tommaso Besozzi sull’Europeo del 16 luglio 1950. La versione ufficiale era che a sparargli fosse stato il capitano dei carabinieri Antonio Perenze. Ma niente quadrava. Al processo di Viterbo Pisciotta presentò l’11 aprile 1951 una memoria scritta in cui rivelò di averlo ucciso. Su mandato del ministro dc degli Interni, Mario Scelba, e dei carabinieri. Il capitano Perenze fu costretto a ritrattare. Ammise che Pisciotta era diventato confidente, tramite un contatto con un mafioso di Monreale. Le udienze misero a nudo collusioni e depistaggi.

Insomma, una storia oscura, tra le molte oscure del nostro tempo. Pisciotta fu condannato, con gli altri membri della banda, all’ergastolo. Non ci furono conseguenze per ministri, deputati, principi ed ex funzionari di polizia tirati in ballo dal bandito. Pisciotta all’Ucciardone annusò subito il pericolo. Avrebbe dovuto annusare meglio la tazzina di caffè che lo ammazzò il 9 febbraio del 1954. Mescolato con zucchero e 20 mg di stricnina. Crepa quaranta minuti dopo. E si trascina nella tomba i segreti che facevano tremare Roma e Palermo.

A Michele Sindona fu fatale un caffè aromatizzato al cianuro di potassio, la mattina del 20 marzo 1986: stava in una cella del supercarcere di Voghera. Dissero che si era suicidato. Chi gli aveva procurato il veleno? Sindona era una bomba ad orologeria. Sapeva troppo. Lui aveva smistato miliardi in labirinti finanziari che si diramavano tra Dc, P2 (aveva la tessera 0501), Cosa nostra, Ior ed in particolare Paul Casimir Marcinkus, il papa nero del business vaticano, quando i bilanci dello Ior erano segreti come i peccati in confessione. Senza dimenticare le furtive intese con Roberto Calvi, il banchiere dell’Ambrosiano, ucciso sotto il ponte dei Frati Neri di Londra il 17 giugno del 1982. Per Giulio Andreotti, Sindona era “salvatore della lira”, per Fbi ed Interpol era il banchiere della mafia.

Non si contano i detenuti “suicidati” per ragion di Stato. Lo fecero in Germania con i capi della Rote Armee Fraktion, l’organizzazione terrorista fondata e guidata da Andreas Baader e Ulrike Meinhof. La notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1977, nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, Andreas Baader e Jan Karl Raspe dicono si siano uccisi con delle pistole, mentre Gudrun Esslin ha scelto di impiccarsi. Irmgard Moeller, si sarebbe accoltellata quattro volte al petto. “Suicidio collettivo”. Peccato che il mancino Baader tenesse la pistola con la destra… che in quella usata da Raspe non ci fossero impronte e che il cavo elettrico con il quale la Esslin si sarebbe impiccata si sia rotto nel tentativo di sollevarla. Quanto alla Moeller, ha sempre negato di aver voluto uccidersi. La Germania voleva liquidare la Raf, e l’estremismo che faceva il gioco della Germania Orientale.

L’altro sistema in auge è non curare i detenuti. Lasciarli schiattare. Lo ha denunciato il padre di Gonzalo Lira, blogger cileno con cittadinanza Usa, arrestato da Kiev a maggio per attività filo-russe, ma anche perché criticava il governo ucraino “dittatoriale”. Per tre mesi Lira ha chiesto di essere curato, solo il 22 dicembre hanno cominciato a farlo. Troppo tardi. E troppo comodo.