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di Francesca Paci

La Stampa, 5 giugno 2023

L’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”: “La rivolta contro il regime continua, usa la fantasia contro la brutalità. Ora però tocca all’Occidente fare la sua parte, bisogna mettere sotto pressione le finanze dei Pasdaran e le tivù”. Le notizie che arrivano dall’Iran sono contraddittorie, si muore sulla forca e si balla per le strade. Azar Nafisi sente, in cuor suo, che questa è la volta buona. Deve esserlo. Proprio ieri l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrel ha affidato a Twitter l’auspicio che dopo la liberazione di tre europei con doppia cittadinanza detenuti a Teheran il regime possa “rilasciare tutti i suoi cittadini” ma la grande scrittrice di cui Adelphi ha da poco tradotto in Italia “Quell’altro mondo” non crede nella presunta razionalità della teocrazia sciita. Semmai ci abbia creduto, racconta in questa intervista a La Stampa alla vigilia, non è più tempo: oggi l’iniziativa è delle ragazze, delle piazze, del popolo. Donna, vita, libertà.

Come vede la rivoluzione iraniana oggi che la repressione incalza, il boia lavora senza tregua e le proteste di piazza appaiono più sporadiche, meno partecipate?

“L’Iran si sta preparando un cambio di scena. Le manifestazioni sono una delle tante forme della protesta ed era prevedibile che non fossero sostenibili a oltranza. Negli ultimi mesi però, sono accadute un paio di cose significative. La prima è che, nonostante la repressione, gli iraniani non sono tornati tra le mura domestiche: ho ricevuto un video di due giorni fa che mostra tante persone ballare e cantare davanti a un negozio di Teheran chiuso perché ammetteva clienti senza l’hijab. Succede spesso, si comincia a ballare e a cantare in modo estemporaneo, è la metafora di come rivoluzione prenda strade diverse, creative, si allarghi a nuovi segmenti della società, i lavoratori, le minoranze, le vecchie generazioni alla ricerca di un ruolo a sostegno dei giovani. La seconda riguarda le crepe all’interno del regime, quasi ogni giorno si sente una voce critica nei confronti della Guida suprema Ali Khamenei. Ci vuole tempo, dobbiamo guardare al lungo periodo. Non sarà domani ma arriverà il giorno in cui il malcontento sociale dilagante avrà la meglio sul regime”

In queste ore Khamenei rilancia il sospetto che “think tank occidentali” spingano la rivolta per rovesciare il governo. Ci risiamo...

Ride. “La sola lingua che conoscono gli ayatollah è quella della minaccia, della violenza. Minacciano, ma non hanno la soluzione alla crisi che è esplosa nel Paese”.

Gli attivisti spiegano che la rivoluzione è cambiata. Dicono che le donne non hanno più paura di andare in giro senza velo. Che informazioni ha lei?

“A quanto mi raccontano è così. Da un lato le iraniane e gli iraniani sono frustrati, arrabbiati, oltraggiati. Dall’altro però, respirano la speranza di un cambiamento importante in corso, la società si è mossa, le donne lottano in questi mesi come lottavano nei giorni successivi alla rivoluzione del 1979, quando, già consapevoli, contestavano Khomeini urlando che la libertà non era ne occidentale né orientale. Il malcontento è rimasto sottotraccia per decenni. Ai miei tempi mettevo un po’ di rossetto e lasciavo uscire qualche ciocca di capelli dall’hijab per dire che non ero proprietà del regime, e come me facevano in molte. Ma la cosa restava lì. Ora siamo oltre, rifiutare il velo in pubblico è atto politico collettivo, è la libertà di scegliere”.

La Repubblica islamica è sulla difensiva e picchia duro. Eppure all’esterno pare aver rafforzato la sua posizione, aggiungendo all’alleanza con la Russia una nuova amicizia con la Cina e la riappacificazione con l’Arabia Saudita. È così?

“È un fatto che il regime sta tessendo la sua tela geopolitica nella regione. Ma più stringe patti e più cresce l’odio degli iraniani per il denaro investito in cause lontane, la Siria, lo Yemen, la guerra di Putin contro l’Ucraina. La palla è ora nella metà campo delle società democratiche: scenderanno a compromessi con l’Iran o lo incalzeranno sulle violazioni dei diritti? Sarebbe un errore credere che la politica estera di Teheran possa frenare l’onda popolare”.

Come sono cambiate le donne iraniane da quando ha lasciato l’Iran?

“Le donne delle nuove generazioni sono intrepide, stanno concretizzando il nostro sogno di passeggiare per le strade di Teheran senza velo. Per questo il regime ha paura: se si trattasse di combattere un’organizzazione politica sarebbe facile arrestarne i leader e chiuderla lì, ma qui si tratta di contrastare milioni di donne e di uomini che dicono no con una lingua universale e non ideologica. La nuova rivoluzione iraniana prova al mondo che i diritti umani non sono appannaggio delle democrazie ma sono universali. Il popolo iraniano da una parte e quello ucraino dall’altra difendono in questi mesi in modi diversi il diritto di qualsiasi popolo a rivendicare la libertà”.

Come sono cambiati gli uomini in Iran, quelli che oggi vengono impiccati perché lottano insieme alle compagne?

“Dimentichiamo troppo spesso gli iraniani, quelli che, contrariamente a quanto vorrebbe la teocrazia, affiancano le donne anziché pretendere di dominarle. Ricordo una campagna di qualche anno fa in cui le donne si svelavano e gli uomini si velavano. Non stiamo assistendo a una rivoluzione di genere, è la vita. Le donne sono iconiche, ma non ci sarebbe questo movimento senza l’altra metà della popolazione. E cantano, e ballano”.

L’opinione pubblica internazionale è incostante. Cosa potrebbe fare concretamente l’Europa per sostenere la sfida del popolo iraniano in modo che non esca dai radar?

“Ci sono tante strade, una è certamente quella di mettere sotto pressione finanziaria la struttura del regime, a partire dalle Guardie della Rivoluzione per arrivare alle tv governative. C’è poi il supporto mediatico. Mia madre mi diceva sempre: “Racconta al mondo cosa ci succede, il regime vuole che gli iraniani si sentano isolati”. Non dovreste distrarvi perché più democrazia in Iran significa più democrazia anche per voi, la destabilizzazione regionale promossa dall’Iran riguarda tutti, e non solo la regione. E mi dispiace ammettere che non è più opportuno cercare l’accordo sul nucleare, quel tempo è finito”.

A gennaio La Stampa ha raccolto quasi 400 mila firme per chiedere la fine delle esecuzioni in Iran e la liberazione degli attivisti. Cosa può fare oggi l’Italia?

“La campagna promossa da La Stampa è stata utilissima per fare sentire l’Italia vicino agli iraniani. I media possono ancora avere un effetto sull’opinione pubblica e possono mettere sotto pressione la politica, anche in Europa, con specifiche domande. Penso per esempio all’ipotesi di inserire i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroriste”.

Cosa si aspetta dal regime iraniano adesso?

“Proveranno ad aumentare la repressione perché hanno il terrore delle riforme, sanno che se dessero un’unghia gli iraniani vorrebbero di più. Al punto in cui siamo le riforme sono impossibili”.

Chi pensa potrebbe guidare un’ipotetica transizione?

“La transizione sarà difficile, nessuno la sottostima. Ma ci sono persone dentro e fuori l’Iran che stanno riflettendo su questo tema. Bisogna evitare l’estremismo opposto a quello del regime, che pure è un rischio. Quando penso al mio Paese penso al Sudafrica della riconciliazione post apartheid. Non abbiamo ancora un Mandela ma ci sono persone interessanti”.

Un potenziale intervento americano è auspicabile o potrebbe essere controproducente per la rivoluzione?

“C’è differenza tra interferenza e sostegno. Gli Stati Uniti dovrebbe pensarci. Gli iraniani chiedono loro di schierarsi con la società democratica ma non a bordo dei jet. Alcuni a Washington credono, paternalisticamente, che non tutti i popoli siano pronti per la democrazia. Basta guardare a come sono stati abbandonati gli afghani. Ecco, vorremmo che l’America e il mondo ci sostenessero credendo che noi iraniani meritano di essere liberi”.