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di Chiara Oltolini

Vanity Fair, 5 luglio 2023

L’infanzia poverissima, il crimine, il carcere e ora gli arresti domiciliari: storia del trapper Baby Gang che attraverso la musica cerca il riscatto. Abbiamo incontrato il trapper in comunità, dove sconta gli arresti domiciliari e cerca il riscatto con la musica. Dopo una serie di curve a gomito, in fondo a una strada isolata di ciottoli, si spalanca a sorpresa la vista di una villa signorile del 1600, con parco sontuoso e approdo privato sulla sponda orientale del lago di Como. Le porte della facciata liberty sono aperte e alle finestre non ci sono le sbarre. Questo posto accoglie ospiti agli arresti domiciliari, in affidamento o in fase di disintossicazione. Oggi quelli della Comunità terapeutica Il Gabbiano sono 24, due donne e 22 uomini, che stanno imparando a gestire la libertà.

Il più giovane è Baby Gang, all’anagrafe Zaccaria Mouhib, per tutti qui Zac, per chi è fuori “il trapper criminale” da milioni di ascolti su Spotify. Italo-marocchino, ha 22 anni appena compiuti, “oltre la metà passati dentro”, racconta. Al Gabbiano, duemila metri quadrati, è arrivato a marzo direttamente dal carcere di Monza, dove ha scontato i primi sei mesi dei 46 che gli toccano per una rapina (a mano armata), non la prima. Non può uscire senza il permesso del giudice, anche le visite sono vietate salvo autorizzazione.

Allora taglia l’erba, fa le pulizie, non cucina ma si ferma a contemplare la natura. “Le attività si dividono tra gli ospiti”, spiega Francesca, una delle otto educatrici. “Le regole sono quelle di convivenza di uno studentato”.

La stanza di Zaccaria, una doppia, è all’ultimo piano, il quarto, l’unico senza portici. Si supera il primo con la biblioteca, il secondo e il terzo con un’esposizione di stendini e panni. Della sua camera colpisce l’ordine: l’accappatoio di Versace appeso, il letto fatto alla perfezione, la targa di Youtube per il milione di subscription raggiunte appoggiata alla parete, le scatole di accessori Fendi, Gucci e Supreme esposte con rigore geometrico. In bella vista sulla scrivania c’è il suo secondo album in versione vinile, Innocente, uscito con No parlo tanto / Warner Music Italy il 26 maggio: 14 tracce e un’infilata di collaborazioni prestigiose del calibro di Lazza, Ghali, Emis Killa e Guè.

Zaccaria, però, preferisce tornare giù e mettersi in terrazza. Forse per fumare una sigaretta via l’altra. Indossa pantaloncini da basket e cappello da baseball, l’irrinunciabile borsello e la T-shirt bianca. Il braccio sinistro ospita una serie di tatuaggi: “Il destro invece deve restare libero, perché rappresenta il futuro, pulito”, dice. E poi prosegue con la spiegazione dei tattoo: “Il primo è la scritta ACAB, sta per All cops are bastards, tutti i poliziotti sono bastardi: l’ho fatto appena uscito da una questura a 15 anni. Il secondo è un’altra scritta in stampatello: fuck police, dopo un brutto episodio con una pattuglia… botte, schiaffi, bam bam bam, come nel videogioco della Playstation GTA San Andreas. L’iniziale di mia madre me la sono tatuata da solo in galera: ago, penna e dolore. Qui ho il simbolo dei dollari, qua il volto di un carabiniere, poi la parola sauvage e la mano di Fatima, ovvero mia nonna materna, disabile, che mi ha cresciuto. È lei mia madre e mia madre è come una sorella”.

L’album di famiglia di Zaccaria si sfoglia veloce. “Per tanto tempo con i miei genitori non ho avuto un gran rapporto. Si sono separati quando avevo un anno. Mio padre non è chi mi ha messo al mondo, ma chi c’è stato, e cioè il compagno di mia mamma, un uomo paziente, lo rispetto. Abbiamo sempre vissuto in bilocali troppo affollati, a Calolziocorte (nel Lecchese, ndr), dove sono nato: c’erano anche i nonni, tre zii… per andare in bagno dovevo prendere la prenotazione. I litigi erano all’ordine del giorno, da chiamare i carabinieri, che mi hanno conosciuto fin da piccolo. A dieci anni non ce l’ho fatta più e sono scappato definitivamente, a Torino, dopo qualche prova generale: due o tre notti fuori di casa a dormire sui treni, in giro. Avevo questo vizio, dovevo per forza rubare: non volevo essere il più povero dei poveri, non potevo essere sfottuto per le mie scarpe bucate o lo zaino di Spiderman da quelli che non avevano niente. Alla fine mi hanno beccato da H&M e portato direttamente in comunità. Sono fuggito dopo poco. Entravo e fuggivo, entravo e fuggivo, così dal 2012. E le fughe erano i momenti peggiori: senza acqua, senza cibo, senza soldi, senza documenti. Come un clandestino. Camminavo tra i cespugli, facevo l’autostop, aspettavo pullman che non passavano mai”.

La prima volta in carcere a 15 anni, all’istituto penale per i minori di Bologna. “Ma mi hanno trasferito subito al Beccaria di Milano per avvicinamento ai famigliari. Non ci stavo male, sono sincero. Anzi, era il mio habitat, più della comunità. I ruoli semplificavano la permanenza: io il detenuto, tu la guardia che mi chiude e apre la cella, non dobbiamo parlare”.

È lì che Zaccaria ha conosciuto don Claudio Burgio, 54 anni, la maggior parte dei quali trascorsi ad accogliere ragazzi in difficoltà. Ha gli occhi blu come il lago alle nostre spalle e il sorriso di chi sorride alla vita. È venuto a trovare Baby, spesso lo chiama così, con cui è rimasto in contatto. È un amico, più che una guida spirituale. “Il primo ricordo che ho di lui è lo sguardo”, dice il don. “Non scorgevo altro: era steso a letto, avvolto nelle coperte, magrissimo, ci spariva dentro. Per mesi mi ha tenuto un po’ a distanza: spavaldo e fragile, non è uno che consegna facilmente la sua storia. E l’esperienza del carcere non ha aiutato: non è un posto dove sviluppare un’identità positiva, piuttosto dove confermare un’identità criminale, uno stigma che Zac avvertiva già da bambino. Un giorno mi ha chiesto di venire nella mia comunità, Kayrós, a Vimodrone. Gli ho domandato: “Che progetto hai in mente?”. Risposta: la musica. Penso che allora avesse messo solo una canzone su Youtube e l’ho smontato, ma Baby non si è lasciato smontare: “Farò il cantante”. Doveva stare con noi due anni, ha voluto fermarsi tre: l’ho visto scrivere a mano i suoi pezzi, di notte; l’ho accompagnato a registrarli in certe bettole di studi che soltanto lui conosceva. E, cosa ancora più importante, attraverso i suoi brani, a partire da Tre occhi, siamo entrati in connessione”.

“Avevo un cervello piccolo così”, Zaccaria riproduce con il pollice e l’indice la dimensione di una noce. “La musica me l’ha spalancato, lo giuro. Un po’ l’ho scelta anche per metterla nel culo a mio padre naturale. Per un periodo, tra una comunità e l’altra, mia madre mi ha portato da lui in Marocco, con la speranza che mettessi la testa a posto. Avete presente le favelas? La gente si lava con i secchi d’acqua, i bambini sniffano la colla, la criminalità è altissima. Io che fumavo le canne ero considerato un barbone. E mio papà rincarava la dose: “Lo diventerai, un barbone. Diventerai un tossico”. Una volta stavo guardando un video di Lil Wayne, Mirror, con Bruno Mars, e glielo ho mostrato: “Guarda chi diventerò, un cantante come lui”. All’inizio ha riso: “Fammi sentire la voce, cacciala fuori”. Mi sfotteva insieme a un suo amico. Poi ha aggiunto: “Se tu diventi un cantante, il tuo cuginetto Adam diventa presidente degli Stati Uniti”. Capite? Ho cominciato a lavorare sodo. Sul lavoro sono determinatissimo, dritto. Portavo in carcere i beat registrati sulla chiavetta usb, caricavo i video in rete”.

Mentre don Claudio si convertiva alla trap, dopo anni da direttore della Cappella Musicale del Duomo di Milano, Baby Gang riceveva le benedizioni di Marracash, Guè e Ghali. “Una sera me l’ha anche portato in comunità”, ricorda il prete. “Stai sveglio, don, che ho una sorpresa, mi ha detto. Non era la prima: una volta ha introdotto di nascosto un cane, un cucciolo di american bully di nome Boss”.

Ghali conferma e vuole aggiungere una cosa: “Con il suo talento, prima o poi, Baby Gang sarebbe arrivato a coprire un ruolo importante nella scena musicale. E ce n’era bisogno. Ora che tutti lo conosciamo, sembra banale, ma ve lo immaginate oggi l’hip pop italiano senza una presenza come la sua?”.

Nel 2020 la Warner l’ha messo a contratto. Perché investire in un artista dalla fedina penale corposa? La risposta che ci ha dato la casa discografica: “È il simbolo di una generazione sottorappresentata. Baby Gang è in grado di raccontare uno spaccato di realtà che non tutti conoscono o fanno finta di non conoscere. Lo fa in modo sincero e diretto”. Il talento prima della cronaca giudiziaria. Ne è convinto anche don Claudio: “La musica di Baby è di denuncia. È chiaro che arriva come un pugno nello stomaco, soprattutto ai genitori. Anch’io ho reagito così. Però mi sono detto: è la sua realtà. E può aiutare noi adulti a porci delle domande: com’è possibile che un ragazzino abbia attraversato quell’inferno? E ci rendiamo conto che quell’inferno è più vicino di quanto pensiamo?”.

“Nelle mie canzoni c’è l’uno per cento delle mie tre vite, perché ne ho già vissute tre”, continua Zaccaria. Le sere in strada scambiato per un pusher, le notti a dormire sotto i ponti o nei sotterranei, le mattine a lavarsi alle fontanelle. Furti, risse, Daspo - il divieto di accedere alle manifestazioni sportive -, porto d’armi abusivo e pistola tenuta sotto il cuscino, il carcere punitivo come “una tomba” senza nemmeno un’ora d’aria. “Se dovessi raccontare tutto, non mi crederebbe nessuno. E poi ci vorrebbe un altro linguaggio: quello del cinema. Ci arriverò”.

Intanto in comunità è l’ora della merenda: tè freddo, frullato di banana, brioche e biscottini. Zac ci presenta Mike da Lodi, uno dei pochi amici che ha qui: “Per il resto sto da solo, gli altri ospiti hanno 40, 45 anni”. “Sessantotto il più anziano”, si inserisce la responsabile della struttura Loana Di Dio detta “la comandina”. “A lui ripetiamo sempre che ha più pena che vita!”. Risate generali, ma lo sguardo di Baby Gang va ai velisti che sfruttano la Breva che spira. Sotto sotto un po’ lo preoccupa che l’etichetta diventa il personaggio e il personaggio diventa un destino. “Non mi pento, però sto cambiando. Questo è il mio essere d’esempio. Ho avuto problemi con l’alcol, ora non più. Facevo rapine, ora guadagno con la musica”.

Il primo acquisto folle: “Una statua con la mia testa. È alta così (indica il petto, ndr), l’ho pagata seimila euro. Sta a casa di mia madre. Le ho preso una villetta davanti ai palazzi Aler dove abbiamo abitato. Ne vorrei comprare un’altra, di casa”.

Il dopo-comunità è un pensiero leggero. L’impossibilità di esibirsi live è un pensiero macigno. L’idea di diventare padre è un pensiero lontano ma concreto: “Un figlio mio ci sta, però vorrei adottare, per dimostrare a quella persona che si può partire in svantaggio e risollevarsi poi. Sono musulmano e ho sempre saputo che il mio Dio avrebbe trasformato la merda in oro”. Zac è innamorato? “Nì. Ho sofferto così tanto che non ci provo più con nessuna, deve essere lei a fare il primo passo. L’orgoglio è tutto”.