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di Jacopo Storni

Corriere della Sera, 4 aprile 2023

Tra gli ospiti della comunità residenziale “La Mammoletta” per conto della Fondazione Exodus all’isola d’Elba: “La cosa più dolorosa è che arrivano sempre più piccoli: ragazzi di 13, 14, 15 anni. Così proviamo a fargli riprendere la loro vita dietro storie di adozioni, bullismo ricevuto, genitori separati. Non sono delinquenti, la loro violenza è la conseguenza di un loro disagio, una frustrazione profonda”.

Arrivano qui dopo aver distrutto le loro case. C’è chi ha spaccato porte e finestre, c’è chi ha messo le mani addosso alla madre. C’è chi ha distrutto vetri e specchietti delle macchine parcheggiate, altri che hanno divelto cartelli stradali. E poi le risse, ragazzi violenti che hanno preso a cazzotti i passanti. C’è chi girava col coltello e intimidiva i propri coetanei. E c’è chi affogava frustrazioni nelle sostanze.

Ventenni col fuoco dentro, la rabbia marchiata sotto pelle. Rabbia, che però nasconde sofferenza. Rabbia, che suona come un richiamo. Per non morire arrivano qui, in questo angolo incantato all’isola d’Elba. Comunità La Mammoletta, una casa famiglia residenziale dove i giovani in difficoltà provano a placarsi, a ritrovare un senso, a ripartire. Arrivano su segnalazione dei servizi sociali, oppure dei tribunali, oppure segnalati dalle famiglie che non sanno più come fare.

Vivono e dormono qui, le loro stanze sulla collina si affacciano sul mare cristallino. Vivono qui, in questo luogo protetto, ricostruito da Stanislao Pecchioli e Marta Del Bono, marito e moglie, che da oltre trent’anni gestiscono questa struttura per conto della Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, coadiuvati da educatori e psicologi. Li aiutano a guardarsi dentro, per capire le radici profonde di quella violenza, di quella devianza su cui è deragliata la loro vita. All’Elba i ragazzi tornano sui banchi di scuola oppure all’università, vanno in barca a vela, suonano gli strumenti, fanno yoga, zappano l’orto, cucinano, si prendono cura delle loro vite. E si guardano con occhi nuovi, scoprendo di non essere soltanto quel fuoco di collera.

La domenica pomeriggio si mettono in cerchio e tirano fuori le emozioni. Imparano a scavare dentro. Scrivono una lettera a sé stessi in seconda persona. “Ti ricordo a 10 anni sulla spiaggia, ti ricordo fragile coi genitori separati”. Parole come pietre: “Ti ricordo in quel Natale, stringevi una mano che non c’era”. E alla fine delle letture, ognuno disegna qualcosa su un foglio bianco. Uno di loro scrive “Risveglio”, un altro scrive “Mi fido di me”, un altro ancora scrive “Riscoprirsi”. E poi “Ci credo”, e ancora “Il tempo di prendersi cura”. Guardano al loro passato, perlustrano i meandri della mente, comprendono come la loro aggressività non sia nata così, per caso. Dietro l’ira c’è una storia. Un passato difficile, spesso. Storie di adozioni, bullismo ricevuto, genitori separati. Ragazzi e ragazze che hanno sofferto, e sublimano il dolore nella brutalità. Ragazzi che potrebbero far paura, ma che invece nascondono una tenerezza inesplorata.

I loro appartamenti hanno due stanze e quattro letti. Mangiano tutti insieme in un grande soggiorno. Condividono pensieri, sfogano frustrazioni. Non hanno il cellulare, queste sono le regole. Per chiamare casa, usano il telefono dei gestori della struttura, che tentano di aiutarli nel delicato cammino per recuperare gli affetti e l’armonia familiare perduta. Ragazzi e ragazze con il rancore dentro. Si sentono talvolta incompresi, inascoltati.

Come spiega la stessa Marta Del Bono: “Accogliamo ragazzi che vivono momenti difficili, a volte legati alla violenza, a volte legati alle sostanze. Quando arrivano qui hanno tanta rabbia, a poco a poco però si trasformano, non sono assolutamente violenti, non sono delinquenti, la loro violenza è la conseguenza di un loro disagio, una frustrazione profonda, talvolta inespressa. Quando questi giovani ritrovano un po’ di pace, scoprono la poesia dentro di loro”.

In questi trent’anni, sono cambiati i ragazzi che arrivano alla comunità La Mammoletta: “E’ doloroso dirlo, ma i giovani che arrivano qui oggi sono molto più giovani di quelli di trent’anni fa, a volte hanno perfino 14 anni. È la società ad essere cambiata, e con essa la struttura familiare. Molti genitori sono ancora troppo figli per essere genitori, sono molto impegnati con i loro bisogni, non hanno la fermezza e l’ascolto necessari, i loro figli spesso hanno tutto, e forse sono gli stessi adulti ad essere più insoddisfatti, più insicuri, più in crisi, la loro crisi rispecchia quella della società, talvolta hanno bisogno dell’attenzione loro stessi e per questo a volte non si accorgono di non darla ai figli”. Parole che non devono sembrare come una condanna dei genitori, spiega Marta, ma un monito nei confronti di “una società troppo frettolosa di cui sono vittime anche gli adulti e dove troppo spesso abbiamo smarrito il valore dell’ascolto”.