sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Nina Verdelli

Vanity Fair, 24 maggio 2023

Accantonata la proposta del Pd di togliere dalle carceri tutti i figli piccoli che vivono con le madri detenute, siamo andati in un distaccamento Icam di San Vittore, a Milano, a vedere cosa significa un’infanzia senza libertà.

Sua figlia le ha mai chiesto: Mamma, perché siamo qui? “No, Luce ha due anni e mezzo, è troppo piccola. Però sa bene che non siamo a casa. A volte prende un sacchetto, mette della roba dentro, poi va a bussare alla porta blindata e dice: “Apri, io e mamma a casa”. Difficile spiegare a Luce, Ariel, Kiran, Alfonso e Sferza che, per ora, la loro casa è quella: una palazzina su due piani, circondata da un giardino e recintata da muri alti e plexiglas, in via Macedonio Melloni, a Milano. Ancora più difficile spiegare che, a parte la possibilità di andare all’asilo, da quel cancello non si esce. Niente parco, niente pomeriggi con gli amici, zero passeggiate o feste di compleanno. Loro, i bambini dell’Icam di San Vittore (l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri), sono lì per restare. Fino a quando?

Per legge anche fino a dieci anni. “Di solito, però, questo non succede. Dove non arriva la giurisprudenza, arriva l’intelligenza delle madri”, spiega Marianna Grimaldi, funzionario giuridico-pedagogico della struttura. “All’inizio delle elementari, i bambini manifestano esigenze che vanno al di là del rapporto esclusivo con la mamma: hanno bisogno di famiglia e di relazioni tra pari. Quando il genitore se ne rende conto, avvia il processo di separazione”. Tradotto, lei decide di tornare nel carcere vero e proprio e di mandare il figlio a casa, se c’è, o in comunità, se ad aspettarlo fuori non c’è nessuno. L’interregno tra la simbiosi e il distacco dura da tre a sei mesi: “Dopodiché, quando il bambino è pronto, va”. E la madre? “La madre sta male”, prosegue Grimaldi. “È capitato più volte che una donna, che magari fuori aveva 14 figli, di cui uno soltanto cresciuto qui dentro con lei, mi dicesse: “Sono stata mamma solo di questo bambino”. Perché, a parte studiare per la licenza elementare e media e a svolgere qualche lavoretto, qui si impara a essere madri”. Fuori dalla finestra con le inferriate, una ragazzina di 20 anni dai lunghi capelli neri sta dando il latte al suo neonato. Ma mica lo tiene in grembo: seduta a fianco al passeggino, con la mano destra rivolta all’indietro porge il biberon al figlio senza guardarlo, con la sinistra tira una boccata di sigaretta. “Ci stiamo lavorando”, commenta Grimaldi. “A mano a mano spieghiamo che il momento dell’allattamento è prezioso e che i bambini vanno tenuti in braccio. Insegniamo a preparare le pappe, a tenerli puliti, persino a giocare. Sono donne che non hanno mai giocato in vita loro”.

Sono cinque in questo istituto milanese, 23 in tutto il Paese, con 26 minori al seguito. Bambini che avranno sì il privilegio di crescere con la mamma, ma a cui verrà negato tutto il resto: le loro prime parole saranno “apri”, “agente”, “fuori”; si sveglieranno con il rumore delle chiavi; vedranno i papà nelle poche ore riservate ai colloqui. Alcuni, soprattutto quelli costretti a vivere in una prigione vera e propria anziché in un Istituto a custodia attenuata, avranno più probabilità di manifestare disagi psichici. Negli ultimi mesi, la deputata del Pd Debora Serracchiani aveva lavorato a una proposta di legge perché le madri detenute potessero scontare la condanna in case-famiglia protette (oggi in Italia ne esistono due, una a Milano, una a Roma). Sul testo, però, sono intervenuti alcuni esponenti di Fratelli d’italia con emendamenti che andavano in tutt’altra direzione: carcere obbligatorio in caso di recidiva e niente differimento di pena per le donne incinte o con figli sotto i 12 mesi. Così, l’8 marzo, Serracchiani ha ritirato la firma, e di quei 26 bambini non ha parlato più nessuno. “Sbagliano entrambe le fazioni”, commenta Grimaldi. ““Mai più bambini in carcere” è uno slogan accattivante e toglierli dalle celle è sacrosanto, ma dobbiamo anche chiederci: poi, dove finiscono? A scuola ci vanno? La verità è che spesso diventano invisibili. La casa-famiglia non sempre è una via percorribile: siccome non impone l’obbligo di reclusione, a volte favorisce il fenomeno della “donna meteora”, dentro per due giorni e poi chissà dove”. Soluzioni? “Prendersi cura di tutti i figli dei detenuti, non solo quelli reclusi con le madri. E costruire più Icam come questo di Milano, dove gli agenti sono in borghese, i bambini tutelati e le madri possono anche permettersi il lusso di sognare un futuro diverso”. Quando chiediamo alla 20enne detenuta che cosa sogna una volta uscita da qui, nasconde il rossore delle gote nell’ebano dei capelli. Poi risponde che non ne ha idea. Sta aspettando di ricevere i domiciliari dal suo magistrato incaricato: “Alfonso ha sette mesi, è un mio diritto stare a casa, non so perché mi venga negato”. È giovane, è bella come la principessa Jasmine nel cartone Disney Aladdin, conosce le sottigliezze, se non altro, della legge che la riguarda. Potrebbe fare tutto, rischia di non fare niente. Davanti a sé ha lo specchio di quello che, occhio e croce, sarà la sua vita: dentro e fuori come le compagne di stanza più grandi e più sdentate, sei figli a testa di cui uno appresso, un numero imprecisato di condanne, una quantità imprecisata di disincanto. “Io vorrei fare l’attrice”, dice una delle due con lieve tono canzonatorio. “Ma non l’attrice sconosciuta, voglio lavorare con i famosi”. La seconda si fa seria: “Cosa vuole che faccia fuori da qui? Sono donna, sono rom, ho precedenti penali. Una come me non l’assume nessuno”. Altre speranze ha Marianna, mamma della piccola Luce che, di tanto in tanto, le chiede di tornare a casa: “Ho sempre lavorato nelle cucine, ricomincerò a farlo.

Non ho un sogno per il dopo, ho solo un desiderio: passare più tempo possibile con gli altri tre figli”. 42 anni, italiana, bionda di mèche e azzurra di camicia perfettamente stirata, è madre di quattro e nonna di uno: mentre scontava la pena, la sua secondogenita di 17 anni resta incinta. “All’inizio l’ho sgridata: “Ma come, appena mi hanno rinchiusa, tu hai fatto come volevi?”. Mi dispiaceva perché stava studiando e ora è ferma, giustamente”. Marianna infila l’avverbio “giustamente” ogni due parole, come fosse un mantra da ripetere per iniettare un po’ di rettitudine in una vita che ha conosciuto lo sbando. Vive all’icam di Milano da nove mesi. Prima ne ha trascorsi altri sei, da sola, al carcere del Bassone di Como. “Quando mi sono trasferita qui con Luce, lei aveva poco più di un anno e mezzo. Chiamava mamma ogni donna che incontrava, persino sua sorella quando veniva a colloquio. L’avevo lasciata, giustamente mi cercava in tutte. Mi cercava sempre: si svegliava di notte urlando “Mamma!”. Per la verità, mi cerca ancora. La vedrà tra poco, appena torna dal nido”. Sì perché Luce e Ariel, le due più grandine, di giorno vanno all’asilo comunale a pochi passi dall’icam. Le educatrici le accompagnano e le riportano. Quando alle 16.30 varcano il cancello del cortile, Ariel si precipita verso una palla e inizia a giocare. Luce sembra voler fare esplodere la cintura del passeggino per saltare in braccio a sua madre, che la solleva e la bacia sulle guance e sui ricciolini. Poi, mentre le due bambine si rincorrono, Marianna prosegue: “A Como ho perso 18 chili. Giustamente, stavo troppo male per mangiare. Piangevo e basta. Stavo troppo male anche per guardare le foto dei miei figli. Non mi sarei mai aspettata di finire così. Ero molto delusa da me stessa”. Lo è ancora? “Non mi sono perdonata. Giustamente, non posso dimenticare il male che ho fatto ai miei figli. Però, stando qua, ho imparato ad amarmi e ad ascoltarmi: ora so che nella vita devo fare solo quello che sento. Non asseconderò mai più un uomo per paura di perderlo”. È finita dentro per amore? “Ecco. Mi sono fatta trascinare in un mondo che non era il mio. Io vivevo di famiglia e di lavoro. Poi ho sbagliato, perché non ho denunciato quello che sapevo. Ma di una cosa sono certa: nessuno mi fregherà un’altra volta”. A “fregarla”, è stato il compagno, padre di Luce, che ora sconta la pena a Opera con pressoché zero possibilità di venire a trovare la bambina: “Alla fine mi fa tenerezza, perché lui ama sua figlia. È un bravo papà”. E lei è una brava mamma? “Credo di sì. L’ho scoperto vedendo come mi hanno difesa i miei figli il giorno in cui sono stata arrestata. Io li avevo preparati, ma quella mattina mi hanno stupita. I carabinieri sono venuti a prendermi all’alba. Il maresciallo ha cacciato fuori le manette. La mia secondogenita l’ha guardato e gli ha detto: “Maresciallo, per piacere, non infili le manette alla mia mamma. La mia mamma non è una criminale”. Lui l’ha ascoltata e le ha rimesse in tasca. Poi mi ha presa sottobraccio, e mi ha portata via”.

P.S. Conclusa l’intervista, prima di lasciare l’Icam, ci tratteniamo qualche minuto in cortile. Luce e Ariel sono così affamate di divertimento che è impossibile sottrarsi: giochiamo a palla, a nascondino, ad acchiapparella. Viene il momento dei saluti, Ariel non lo accetta. Si attacca a una gamba e ci supplica di non andare via. Acconsentiamo a un ultimo giro sullo scivolo. Poi, con gentilezza, le guardie fanno intendere che il tempo è scaduto. Mentre ci avviamo al cancello, Ariel ci corre incontro. Non è abbastanza veloce per passare dall’altra parte insieme a noi. Allora infila la sua manina tra le sbarre e gli occhi belli nei nostri: “Dammi un bacio”, dice. Poi scompare da dove era venuta.