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di Andrea Colombo

Il Manifesto, 5 marzo 2024

È scomparsa ieri a 75 anni. I suoi libri utili per capire, senza giustificare, le Brigate Rosse. Nei suoi sette libri, il primo “Compagna Luna”, pubblicato nel 1998, l’ultimo, “Respiro”, l’anno scorso, Barbara Balzerani parla pochissimo dei 13 anni passati nelle Brigate rosse, dal 1975, quando scelse di arruolarsi sino all’arresto nel 1985 e poi alla dichiarazione congiunta con cui lei, Renato Curcio e Moretti, nel 1988, dichiararono conclusa l’esperienza della lotta armata in Italia chiedendo che si avviasse la ricerca di una “soluzione politica” che non è mai arrivata. Quel silenzio non vuol dire che la scrittrice scomparsa ieri a 75 anni, dopo una malattia, avesse rinnegato il suo passato o lo volesse nascondere.

Dell’organizzazione armata di cui era stata la principale dirigente dopo l’arresto di Mario Moretti, all’epoca suo compagno, nel 1981 criticava molte cose ma senza sconfessare nulla. Senza pentimento perché, pur riconoscendo alcuni errori, Barbara Balzerani si è sempre considerata ed è rimasta sino all’ultimo una rivoluzionaria comunista. Non si sarebbe mai definita una terrorista. Non riteneva di esserlo mai stata.

Se Barbara taceva sulla quotidianità di quella esperienza è perché sapeva che il rosario dei nudi fatti non poteva raccontare alcuna verità, avrebbe sempre e comunque ridotto la sua esperienza umana e in fondo anche quella della sua generazione politica, o di una sua parte rilevante, all’arida lettura dei capi d’accusa oppure all’esoterismo delle analisi che le Br sfornavano periodicamente. Lei invece voleva raccontare la verità dei sentimenti e delle emozioni, della rabbia e frustrazione, del dolore e della speranza che non cambiano il giudizio sulle sue scelte ma le spiegano, le spostano dal terreno superficiale della demonizzazione facile a quello complesso, profondo, spesso tormentato che ne era all’origine.

Nei suoi libri Barbara Balzerani parlava di sé, del suo mondo, delle persone che incontrava nella libertà ritrovata e così facendo cercava anche il senso della sua tragica parabola. Nella narrativa di Barbara Balzerani c’è molto, moltissimo di autobiografico: l’infanzia a Colleferro, famiglia operaia, rabbia profonda per l’ingiustizia sociale che respirava in quella piazza dove i ricchi e i poveri, i padroni e i dipendenti, vivevano gli uni di fronte agli altri: l’arrivo nella metropoli nel 1969, in una città e in un Paese dove soffiava un vento di rivolta e speranza quale mai si era presentato prima e mai più sarebbe tornato; la famiglia, i genitori, la sorella grande che le aveva fatto anche un po’ da madre, e poi gli incontri fuori dal carcere.

Non c’è quello che campeggerà oggi sui giornali: la militanza in Potere operaio, poi dal 1975 nella colonna romana delle Br, la trasformazione in “Sara”, il nome di battaglia, via Fani, unica donna nel commando che rapì Aldo Moro, la guida delle Br negli anni in cui quell’organizzazione si dissolveva, lacerata dalle scissioni, dal conflitto tra fazioni interne, sempre più sideralmente lontana dalla realtà, persa nella sua logica armata.

Non ci sono le torve rivendicazioni degli omicidi anche dal carcere, non c’è l’elenco delle vittime. Nei suoi libri c’è molto di più e c’è anche quel che serve per capire, senza doverla per questo giustificare, la lotta armata italiana. Barbara Balzerani sarà ricordata come una ex brigatista, la primula rossa delle Br, la “terrorista”, qualcuno non dimenticherà le parole sbagliate che usò in occasione dei 40 anni dalla strage di via Fani. È giusto, perché questo è stata e non lo ha mai disconosciuto. Ma andrebbe ricordata anche per quello che è stata negli ultimi 25 anni della sua vita: una scrittrice sincera e profonda.