di Errico Novi
Il Dubbio, 7 settembre 2024
“È per il bene del Paese”. In genere negli slogan elettorali si dice così. Con un’enfasi a metà fra l’iperbole risorgimentale e il paternalismo da prima Repubblica. Ma sentirlo dire dai magistrati colpisce. Soprattutto dai magistrati impegnati “politicamente”. A pronunciare una frase così solenne è stata, nei giorni scorsi, la presidente uscente dell’Anm sezione Napoli, Ida Teresi. Una pm antimafia importante, con alle spalle diverse indagini delicate, ora in prima linea nella Procura guidata da Nicola Gratteri. Nel passare il testimone alla collega Cristina Curatoli, nell’augurarle buon lavoro, le ha appunto detto: “Sarà importante continuare a sostenere l’Associazione per dare voce alla magistratura italiana in un momento davvero complicato, con l’impegno di tutti e di ciascuno. Per il bene del Paese”.
Ecco, è l’accostamento fra le due ultime proposizioni, in particolare, a colpire: il “momento” è così “complicato”, evidentemente, perché sta per iniziare l’iter parlamentare del ddl sulla separazione delle carriere. La riforma con cui Carlo Nordio sancisce il divorzio fra giudici e pm è, da mesi, la croce, il chiodo fisso dell’Associazione magistrati e delle sue correnti. E dunque, sul piano sindacale, il momento è effettivamente “delicato”. Ma il fatto che la lotta da condurre in una fase del genere vada affrontata non per l’interesse di categoria, più che legittimo e più o meno condivisibile, ma appunto per il bene del Paese, ecco, genera uno scarto semantico da corto circuito cognitivo.
Perché evitare la separazione delle carriere farebbe addirittura il “bene del Paese”? Perché una categoria così impegnativa, anzi due categorie, il bene e il male? Perché i fatti delle toghe ci dovrebbero riguardare tutti come se si trattasse dell’ingresso nell’euro o del ritorno al nucleare? Perché, visto che parliamo semplicemente di un riassetto ordinamentale già implicitamente evocato dall’articolo 111 della Costituzione (la parità delle parti davanti al giudice terzo e imparziale), e visto che gli stessi Padri della Carta del ‘48 accantonarono tale opzione solo per scongiurare il ricrearsi di una figura di magistrato inquirente analoga a quella appena archiviata con la dittatura fascista? Che senso ha tanta solenne gravità, se nella riforma Nordio l’unica vera incognita, per i pm, non riguarda certo il rischio di un loro annichilimento o subornazione politica, quanto piuttosto il loro futuro sostanziale distacco da ogni altra componente dell’ordine giudiziario e, soprattutto, da qualsiasi controllo, eccezion fatta per il presidente della Repubblica? In una parola: perché le toghe si sentono sempre il centro dell’universo e della morale?
Che si sentano cosi è attestato da svariati precedenti. Dal programma dell’ultimo congresso celebrato dalla corrente a cui appartiene la stessa pm Teresi, “AreaDg”, per esempio: l’anno scorso a Palermo il gruppo progressista della magistratura organizzò, più che un’assise tecnico-associativa, una sorta di congresso da partito politico vecchio stampo: trasversale nella partecipazione e negli ospiti, universalistico nei temi messi a dibattito, politico non in senso lato ma in senso pieno, con tavole rotonde del genere “I diritti sotto attacco”, certo non un approccio pensoso e neutrale.
Sono in missione, i magistrati. Ma qualcuno ha chiesto loro di esserlo? È un problema dal quale il sistema istituzionale, il dibattito pubblico del nostro Paese non riesce a venir fuori. Lo segnala da anni Giuseppe Fiandaca, che alla vocazione politico-moralistica delle toghe militanti riconduce un ampio spettro di danni provocati all’equilibrio della nostra democrazia. Come insegna il professore dell’Università di Palermo, la confusione fra i poteri, e l’esondazione del potere giudiziario, rappresentano l’innesco di un disordine irrimediabile. E non si tratta solo di specifici effetti concreti, ma del diffondersi di un’idea, di un equivoco culturale, che a chi scrive pare ricorrere, per esempio, anche nell’ambizione in qualche modo “moralizzatrice” coltivata dalla magistratura ligure nell’indagine su Giovanni Toti.
Nel momento in cui si afferma che un governatore, finché non si dimette, continua a poter reiterare il reato, ecco, si produce un altro capogiro, un altro cortocircuito cognitivo: intanto il reato è in ipotesi, quindi ipotizzarne la reiterazione non è solo arbitrario, è più banalmente illogico. Ma soprattutto, equiparare le funzioni politico-amministrative a indizio di colpevolezza, anzi di potenziale attitudine a delinquere, significa porsi come guardiani della morale assoluta rispetto a una politica che è di per sé è corrotta.
È una distorsione della giustizia, uno “sviamento della funzione”, non in senso penalmente rilevante ma sul piano culturale e semantico, che si salda perfettamente con le parole di Teresi secondo cui l’impegno anti-riforma dell’Anm dev’essere condotto e profuso per il bene del Paese. Tutto sovradimensionato. Tutto alterato da un’enfasi che poteva essere comprensibile nel pieno del fuoco di Mani pulite, ma che dopo 33 anni regge solo perché una parte del sistema mediatico tiene il gioco, e in qualche modo giustifica certi eccessi. Dopodiché, in una simile analisi, neppure si può ignorare che al decadimento della classe politica, alla perdita di spessore politico-culturale dei partiti, ridotti più che altro a cordate che garantiscono, attraverso la cooptazione, solo la loro stessa integrità, dovevano pur rimediare altri soggetti sociali. E la magistratura associata, a ben guardare, ha svolto anche questa più o meno volontaria e consapevole supplenza, oltre a quella realizzata dai singoli giudici attraverso le sentenze nelle materie in cui il legislatore si è attardato.
È chiaro che la magistratura rappresenta una delle ultime élites intellettuali del Paese, non foss’altro perché il concorso per diventare giudice o pm, almeno per ora unico, richiede anni di studio, di rigore, di sacrifici, e una cultura di base non approssimativa. Ben venga, sia chiaro, il contributo intellettuale dell’élite giudiziaria: ma non può essere benvenuto, proprio per il bene del Paese, il moralismo militante di chi associa una determinata visione della società con il malinteso compito di cambiarla, per salvarla dal male. Evitiamo lo slittamento dal contributo culturale al moralismo giudiziario, perché altrimenti il potere lasciato doverosamente, dalla Costituzione, nelle mani dei magistrati diventa un’arma nucleare che spegne qualsiasi ipotesi di democrazia.