di Federica Olivo
huffingtonpost.it, 19 gennaio 2023
Intervista al professore Marco Ruotolo sull’ipotesi, lanciata da Piantedosi, di cambiare la Carta in nome della lotta alla criminalità organizzata: “L’articolo sulle pene è un principio supremo. Sarebbe un grave errore parametrare tutta la legislazione penale sulle esigenze del contrasto alla mafia”.
“Lo Stato ha ingaggiato una guerra contro la mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi. Alla luce di questo vanno effettuate anche le valutazioni di ordine costituzionale”. Parla così il ministro dell’Interno: riferendosi all’ergastolo ostativo e, in generale, alle pene per i mafiosi, apre alla possibilità di cambiare la Costituzione in una sua parte fondamentale. Non cita articoli Piantedosi, non dà dettagli, ma il bersaglio - è evidente - è l’articolo 27 della Carta, che disciplina la presunzione di innocenza e la funzione rieducativa della pena. Una di quelle norme che non sono state mai toccate, perché sono intangibili, o quasi, come ci spiega in questa intervista Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto costituzionale a Roma 3, direttore del master in Diritto penitenziario e Costituzione, nonché componente del comitato scientifico dell’associazione Antigone.
Professore, dopo l’arresto di Messina Denaro, il ministro Piantedosi ha detto La Stampa che, in nome della lotta alla mafia, si può anche cambiare la Costituzione. Il riferimento era all’ergastolo ostativo. Ma ciò significherebbe intervenire sull’articolo 27 della Carta. Parliamo di un principio fondamentale dello stato di diritto. È possibile cambiarlo?
Come ha scritto la Corte costituzionale nel 1990, la “tendenza a rieducare” è una delle qualità essenziali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nella sua astratta previsione, fino a quando in concreto si estingue. Ed è l’unica finalità espressamente indicata in Costituzione. L’opzione repressiva - è sempre la Corte ad affermarlo - non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo. Cambiare l’art. 27 della Costituzione, andando in una direzione opposta a quella indicata significherebbe, incidere su un principio supremo, cosa che non è possibile fare nemmeno ricorrendo alla procedura aggravata prevista per la revisione costituzionale. La nostra è una Costituzione rigida, non modificabile per le vie ordinarie, e quindi sarebbe inaccettabile una clausola che nella sostanza attribuisca al legislatore il potere introdurre deroghe alle finalità indicate in Costituzione. Perché attribuire alla legge ordinaria il compito di derogare alla finalità rieducativa alla ricorrenza di circostanze particolari altro non significherebbe che rendere “flessibile” (e cioè modificabile nelle vie ordinarie) la stessa previsione costituzionale. La scelta sul se e come derogare sarebbe rimessa ad una contingente maggioranza parlamentare, se non al Governo mediante l’uso del decreto-legge. È quanto la Costituzione non vuole, ergendosi come limite al potere a garanzia dei diritti di ciascuno e di tutti. Né possiamo dimenticare che siamo in un sistema europeo che esprime valori precisi quanto alla funzione del potere punitivo e alla sua configurazione in concreto. Ogni intervento legislativo e persino costituzionale deve tenere conto anche di questa cornice.
Quali sarebbero le conseguenze di un intervento del genere?
Sarebbe come “decostituzionalizzare” la Costituzione, rendendola per questa parte una mera legge ordinaria.
In effetti in parlamento è stata depositata, da parte di Cirielli di FdI, già una proposta di legge di revisione costituzionale che andrebbe a rivedere l’articolo 27, che va nel senso di far prevalere la visione punitiva dalla pena a quella rieducativa. Come si spiega questa tendenza di certa politica?
Manca nella nostra società una cultura costituzionale della pena. È più semplice dire “buttiamo la chiave”, specie con riguardo a reati di particolare allarme sociale, piuttosto che ricercare la via complessa della ricostruzione del legame sociale attraverso percorsi rieducativi, spesso difficili e non sempre idonei. Al raggiungimento del fine della pena (la rieducazione) dovrebbe corrispondere la fine della pena. Il perseguimento della finalità rieducativa ha riflessi positivi non solo per il condannato, ma per l’intera società, perché garantisce la sicurezza dei cittadini. Un detenuto che abbia fatto un reale (e non opportunistico) percorso di ravvedimento e cambiamento è una persona che probabilmente non ricadrà nel reato al momento della fine della pena, come dimostrano gli studi sulla recidiva.
Il governo Meloni è già intervenuto sull’ergastolo ostativo, con il decreto rave. La nuova norma, molto restrittiva, rispetta le richieste dalla Consulta secondo lei?
Le indicazioni della Corte sono recepite in alcuni punti fondamentali, con scelte che rendono certamente difficile l’accesso alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo che abbiano commesso reati legati alla criminalità organizzata. La Corte al fondo ha detto che soltanto la collaborazione fa scattare una presunzione di ravvedimento; nel caso di mancata collaborazione la concessione dei benefici sarà improbabile, perché il condannato dovrà dimostrare non soltanto l’assenza di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche del “pericolo” di un loro ripristino, oltre ad aver avuto una condotta carceraria che lasci presumere la positività del percorso di rieducazione. Insomma, l’accesso alla misura sarà improbabile (come è giusto che sia, in assenza di collaborazione), ma non impossibile. Ad ogni modo, in questo ambito non rientrano i detenuti che siano collocati nel regime del 41-bis. Quel provvedimento presuppone proprio l’attualità dei collegamenti e quindi impedisce, logicamente e giuridicamente, che possano essere concessi permessi o la liberazione condizionale a boss che scontano la pena in regime di 41-bis. Semmai, ove questi riescano a dimostrare l’assenza di attualità dei collegamenti, dovranno prima agire per ottenere la revoca del 41-bis.
Si è spesso sostenuto che una parte della legislazione antimafia, giusta in un determinato periodo storico ma molto restrittiva per quanto riguarda i diritti costituzionali, è da intendersi di carattere emergenziale. Invece è stata resa strutturale nel nostro ordinamento, ciò non confligge con la costituzione?
L’emergenza non può divenire quotidiana, altrimenti non è più tale. Sarebbe un grave errore parametrare tutta la legislazione penale sulle esigenze specifiche del contrasto alla mafia. Ad ogni modo, il regime del 41-bis è strumento essenziale per evitare che gli autori di reati di criminalità organizzata mantengano vivi i rapporti con il consesso di appartenenza. Questo regime può ben giustificare più penetranti limitazioni all’esercizio dei diritti, ma mai oltre certi confini. Solo puntuali esigenze di ordine e sicurezza, che in questo ambito hanno senz’altro maggiore peso, possono infatti giustificare le limitazioni all’esercizio dei diritti. E, comunque, al decremento di tutela di un diritto fondamentale deve corrispondere un incremento di tutela di altro interesse di pari rango. Altrimenti la limitazione si riduce in mera afflizione ulteriore, come tale in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione.
Il dibattito sul 41 bis si è riaperto anche con il caso Cospito, l’anarchico ristretto al carcere duro che da mesi è in sciopero della fame contro la misura nei suoi confronti. Che confini deve avere il 41 bis? Se ne fa un uso eccessivo?
È un regime che va applicato con attenta analisi della ricorrenza dei presupposti. Ad ogni modo la determinazione ministeriale è quasi un atto dovuto dopo un vaglio di plurime autorità giudiziarie e di polizia. Ed è fondamentale la previsione che permette al destinatario del provvedimento di richiederne la revisione ricorrendo al giudice. È una garanzia fondamentale contro l’eventuale uso distorto dell’istituto.
Per concludere parliamo di carceri. Come lei sa bene, il 2022 è stato l’annus horribilis dei suicidi - 84 persone si sono tolte la vita in cella - eppure il governo sembra voler rispondere al più immaginando la costruzione di nuove prigioni. Cosa serve, invece, al sistema penitenziario italiano?
Non credo che la soluzione stia nella costruzione di nuove carceri. Bisognerebbe investire sul “trattamento”, rendere il carcere un luogo dove sia veramente possibile intraprendere percorsi di reinserimento sociale, garantendo condizioni dignitose per chi vi opera e per chi vi è detenuto. Cercando, finalmente, di far prevalere l’idea che la legittima risposta di giustizia debba essere anzitutto tesa a responsabilizzare in vista del futuro.