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di Giuliana Ubbiali

Corriere della Sera, 11 agosto 2023

Il giovane parricida di Cavernago si è tolto la vita impiccandosi in bagno con la felpa. Aveva già manifestato i suoi propositi, ieri mattina era stato in Psichiatria. La Garante dei detenuti: “In via Gleno situazione pesante”. Voleva morire, Federico Gaibotti, 30 anni segnati dalla droga. E lo ha fatto, ieri pomeriggio in carcere, senza che nessuno se ne accorgesse in tempo e lo fermasse. Lo aveva detto alla vicina di casa del padre Umberto, in via Verdi a Cavernago, venerdì. Al padre stesso, prima di ucciderlo a coltellate al culmine di una discussione proprio per la fissa del suicidio. Si sarebbe stordito con il crack e la cocaina e poi sarebbe dovuto morire lui a coltellate. Lo aveva ripetuto nell’interrogatorio davanti al gip: “Non valgo niente, volevo suicidarmi”.

Ieri pomeriggio ha portato a termine il suo piano, nella cella del carcere di Bergamo in cui era rinchiuso da venerdì e che condivideva con un altro detenuto “protetto”, cioè privato come da protocollo di cinture, lacci, tutto quanto potesse usare per farsi del male. Eppure ce l’ha fatta, impiccandosi in bagno utilizzando la felpa. È stato tutto molto veloce, senza che se accorgesse in tempo l’altro detenuto, senza che se ne accorgesse la polizia penitenziaria.

Un gesto pluriannunciato. Anche ieri mattina, quando per questa sua intenzione era stato portato in Psichiatria (per il carcere, all’ospedale Papa Giovanni XXIII) e poi ricondotto in via Gleno. “Una vicenda triste. Sì, l’ho visto anche nei giorni scorsi”, non va oltre l’avvocato d’ufficio Miriam Asperti che lo difendeva per l’omicidio e, in sede di convalida dell’arresto, aveva chiesto la misura cautelare in una comunità. C’era andato, Federico, in una comunità a Brescia, ma era riuscito a resistere solo una settimana. Lo aveva promesso quando, a fine giugno, era stato arrestato e processato per direttissima per tentata violazione di domicilio a casa della madre, a Seriate, lesioni e resistenza ai carabinieri intervenuti.

La droga e l’alcol, assunto il pomeriggio dell’omicidio del papà (oggi alle 15 i funerali), il crescendo dei guai, il pericolo di reiterazione: nell’ordinanza di convalida dell’arresto, con il carcere come “unica misura in grado di assicurare il costante controllo della persona sottoposta alle indagini”, il gip tratteggia lo sfondo che “depone in favore di una personalità disturbata e priva di normali freni inibitori e degli istinti più bassi”, indicando la strada della consulenza psichiatrica del pm (titolare del fascicolo è Laura Cocucci) da approfondire. Ora verrà aperto un altro fascicolo, dal pm di turno Emanuele Marchisio. Ci finiranno i rilievi della Scientifica della Questura intervenuta in carcere e gli esiti dell’autopsia, per non lasciare dubbi.

Cercati, non è stato possibile parlare con la direttrice del carcere Teresa Mazzotta e con il comandante della polizia penitenziaria. “Certo, voglio capire meglio che cosa è capitato, anche perché non succeda ancora. Domani mattina (stamattina ndr) andrò in carcere”.

La Garante dei detenuti Valentina Lanfranchi ieri era rimasta in via Gleno fino alle 14: “Non lo sapevo. Qui la situazione è pesante, pesante, pesante. Non abbiamo celle da un detenuto, ce ne stanno 3,4,5. Troppi i casi psichiatrici e poco personale”. A fine luglio, con la tappa dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” i detenuti erano 523 con una capienza di 317, e 132 agenti su un organico di 234. Le parole misurate di don Dario Acquaroli, cappellano del carcere, riassumono la tragedia di questi giorni: “Continuo la preghiera per tutta la famiglia”.