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di Andrea Nicastro

Corriere della Sera, 21 agosto 2023

Reportage dall’”ultima dittatura d’Europa”, un intero Paese dominato da silenzio, ordine e paura. La gente non fa gruppo: c’è una legge contro gli assembramenti che lo impedisce, per prevenire le rivolte. Il dissenso? Sparito: “Arresti continui”.

C’è qualcosa che lascia disorientati per le strade di Minsk, come se mancasse un po’ d’aria o la forza di gravità agisse diversamente. Certo sono biondi, parlano a bassa voce, non gesticolano e ridono poco, ma non basta. Al principio si pensa all’asfalto perfetto, ai parchi senza una foglia per terra, a piazze, strade, marciapiedi sovradimensionati, agli autobus elettrici, puliti e silenziosi. Non fosse per il costruttivismo sovietico dei palazzi, sembrerebbe una Svezia senza mare. Il patto sociale con il potere qui si regge su stipendi bassi, ma buoni servizi pubblici e prezzi calmierati che permettono di vivere tranquilli. In Bielorussia non ci sono state le privatizzazioni selvagge della Russia degli Anni 90, qui le grandi imprese sono rimaste statali ed è sopravvissuto un egalitarismo sovietico, senza penurie e con in più le vacanze in Turchia. Ma c’è dell’altro, non tanto nelle cose, piuttosto nelle persone. Ci vuole un po’ per rendersene conto, ma l’intuizione arriva e all’improvviso ci si sente scomodi, in pericolo.

Davanti ai tavolini di un pub, si sta esibendo un ragazzo con chitarra e amplificatore. Tutto è come dev’essere: pavimentazione in pietra, edifici restaurati, turisti (russi e qualche kazako) con le tartine di patate nei piatti. Il cantante non è granché, il repertorio neppure, solo canzoni sovietiche Anni 60 e 70 sul mal d’amore. Più che fermarsi, la gente rallenta per sentire la fine della canzone. Due poliziotti lo interrompono, il ragazzo spegne l’amplificatore, ripiega l’asta del microfono, mostra i documenti, non tenta neppure di giustificarsi. I passanti non lo difendono o buttano lì una battuta perché lo lascino andare.

Il ragazzo si muove rigido, meccanico, se ne va con i poliziotti a destra e sinistra e nessuno che lo incoraggi. Non i fidanzati che si tengono per mano, non le due amiche, non i due adolescenti, non la coppia anziana… Ecco l’intuizione. In un attimo capisci che sono tutti a due a due. Come protoni e neutroni che vagano allacciati sul marciapiede tenendosi a distanza dall’altro atomo più vicino. Due, due, due. Non di più. Errore, là sono in quattro, ma sono una famiglia. La regola del due è rispettata anche ai tavolini dei ristoranti. Famiglie oppure coppie. Non ci sono gruppi di amici, compagnie niente. Ecco l’atmosfera irreale di Minsk: la gente non si mischia, non si avvicina, non fa gruppo. Non è carattere nazionale, c’è una legge che lo impedisce, una legge contro gli assembramenti per prevenire le rivolte. E, soprattutto, c’è la paura che ha paralizzato il ragazzo. La Bielorussia è da trent’anni l’”ultima dittatura d’Europa”, ora la deriva della Russia con l’elmetto di Putin ne contende il record, ma insomma l’aria resta quella.

“Gli arresti sono continui”, ha dichiarato al New York Times mesi fa l’Ong premio Nobel 2021 Viasna. Ricontattati a Minsk nei giorni scorsi hanno risposto: “Troppo pericoloso incontrare giornalisti stranieri e anche inutile. Solo cancellando le sanzioni internazionali potrà riprendere il dialogo internazionale con il governo Lukashenko e quindi anche il nostro col regime”.

Il punto di svolta sono state le elezioni del 2020. Un gruppo di esponenti del sistema (un miliardario, un ex ambasciatore e, il più outsider, un blogger) aveva pensato che il padre padrone del Paese, Alexandr Lukashenko fosse pronto a farsi da parte e anche gli elettori ci hanno creduto. Così, quando il risultato di Lukashenko è stato l’80% contro il 19 degli exit poll e il 21 dei sondaggi, i bielorussi hanno osato scendere in piazza, non più due a due, ma in massa. L’Occidente ha reagito con le sanzioni, le ha inasprite nel 2021 quando Lukashenko ha dirottato un volo Ryanair per arrestare un oppositore e ne ha aggiunte ancora nel 2022 quando Minsk ha permesso che dal suo territorio Putin attaccasse l’Ucraina. Risultato: su neanche 10 milioni di abitanti, tra i 200 e i 500mila sono fuggiti all’estero. Un’emorragia che ha azzoppato il Pil.

Gli sfidanti originari del 2020 sono ancora in cella, i loro sostituti in esilio (tra loro il volto dell’opposizione Svetlana Thichanovskaya), mentre l’unica candidata ancora in libertà è Hanna Kanapackaja che ricavò (ufficialmente) dalle urne l’1,6%. “Purtroppo — dice al Corriere Kanapackaja — il mio Paese non aveva nel 2020 e non ha oggi una magistratura indipendente, dei media liberi, un ambiente economico concorrenziale ed elezioni oneste. Il presidente è troppo potente e la Russia troppo vicina. Con tutte le truppe di Mosca che vanno e vengono nel nostro territorio si può dire che anche noi, come l’Ucraina, siamo sotto occupazione”.

Parole forti da sentire a Minsk, soprattutto da parte di una che l’opposizione all’estero squalifica come “finta”, “funzionale al regime”. Dicono che Hanna Kanapackaja può parlare così perché suo padre è uno dei milionari del cerchio magico di Lukashenko e potrebbe essere una a cui passare un potere di facciata. A parole lei ci prova: “Sarò la prossima presidente bielorussa. Perché è tempo che la Bielorussia abbia una leader donna. Perché, come Lukashenko, voglio un Paese indipendente e pochi apprezzano che la Bielorussa non abbia mai riconosciuto l’annessione di Mosca della Crimea o dell’Abkhazia, ma anche io farei così. Perché voglio difendere le nostre sanità ed educazione gratuite. E poi perché, a differenza di lui, voglio un Paese anche democratico ed europeo”. Davvero pensa che sarà almeno ammessa alla corsa elettorale? “Non so. Prima devo riuscire a far passare un’amnistia per l’ex presidente e i suoi familiari”. Piccole prove di resistenza? Chissà. Forse come quella del cantante di strada. I testi erano innocui, solo cuore e batticuore, ma gli autori? Uno era ucraino, l’altro un contestatore di Putin, l’altro idem per di più fuggito all’estero. Era dunque un oppositore subliminale? Nel dubbio: arrestato.