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di Andrea Pugiotto

L’Unità, 4 giugno 2023

L’esortazione di Piero Calamandrei (1949) vale ancora oggi. Ho varcato la soglia di molti penitenziari: per congressi, iniziative, esami universitari. Ma non ero mai realmente entrato in un carcere, nelle sezioni, nelle celle. Un’esperienza che, da giurista, mi ha messo a dura prova.

1. Ciò che non si vede sembra non esistere. Quanto si riesce a nascondere, quindi, è come non fosse mai accaduto. Ecco perché “visitare i carcerati” è un atto politico, non solo un’opera di misericordia corporale. Lo sapeva bene Piero Calamandrei, che dedicò un intero fascicolo della rivista Il Ponte alla condizione carceraria, in sostegno all’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Era il 1949. La sua esortazione (“Bisogna aver visto”) vale ora come allora: solo visitandolo, il carcere smette di essere un mondo a parte per tornare ad essere parte del nostro mondo, sottoposto alle stesse garanzie costituzionali e internazionali. Il non guardare, invece, favorisce il buio della ragione e la scomparsa di ogni umana solidarietà: “siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi, il risultato è lo stesso” (José Saramago, Cecità).

2. In quanto fatto sociale, l’esecuzione penale non è monopolio degli operatori penitenziari, ma va condivisa. Premier, ministri, sottosegretari, parlamentari, consiglieri regionali, membri del CSM, possono visitare le carceri senza preavviso: a farlo, sono troppo pochi. I giudici costituzionali lo fanno da qualche anno, in attesa che a entrarvi sia finalmente la Costituzione. Dovrebbero farlo i magistrati di sorveglianza, tutti e non solo alcuni. Devono farlo, per statuto, il Garante nazionale e i garanti territoriali dei diritti dei detenuti. Dei 365 giorni all’anno, almeno metà sono trascorsi in carcere da Nessuno Tocchi Caino: autorizzato dal DAP, nel 2023 ha intrapreso un tour che ha già toccato 60 istituti di pena. Vi ho preso parte anch’io, ed era la prima volta. In passato, ho varcato la soglia di molti penitenziari: per congressi, iniziative, esami universitari. Ma non ero mai realmente entrato in un carcere, nelle sezioni, nelle celle, con il loro corteo di odori, rumori, colori, luci (artificiali, per lo più), voci e volti. A seguire, condivido qualche appunto sparso di questa istruttiva esperienza.

3. Nonostante la professionalità di agenti e operatori penitenziari (“facciamo i salti mortali”), il carcere è un percolato di sofferenze. È un istituto di pena da espiare: genitivo e infinito ne rivelano l’autentica natura. La detenzione, infatti, è una punizione corporale. Si abbatte su corpi costretti in spazi angusti, dove coabitano sovraffollamento e solitudine. Privati di sessualità, consumata in forma solitaria o promiscuamente nascosta. Usati come carta pergamena o campo di battaglia: il tatuaggio e l’autolesionismo sono i codici comunicativi della galera. Distesi in cella a fissare il soffitto o la tv. Trascinati, avanti e indietro, per il corridoio della sezione. Maniacalmente scolpiti nella domestica palestra penitenziaria. Malati in misura incompatibile con il carcere dove pure, inspiegabilmente, sono reclusi. Fino all’acuzie di corpi sopraffatti che si danno la morte (due, in pochi anni, nel carcere che ho visitato). Il dedalo di corridoi, scale, piani, e le matrioske di cancelli e blindati, ricordano le carceri d’invenzione che Giovanni Battista Piranesi incise come labirinti, in cui spazio e tempo sono dimensioni irrimediabilmente falsate: il primo si restringe, il secondo si dilata, entrambi oltremisura. Dentro o fuori, è comunque brutto a vedersi, il carcere: per questo è dislocato oltre l’orizzonte visivo dello spazio urbano. Così confinato, ci è più agevole proiettarvi dentro i lati oscuri che rifiutiamo in noi stessi. Attiviamo cioè processi psichici illusoriamente difensivi, dato che rimozione e proiezione sono sempre sintomi di un problema irrisolto.

4. Anagrammato, reo si ricompone in ero. Il gioco di parole rivela l’impossibilità di inchiodare per sempre il detenuto al reato commesso: ecco perché le pene devono tendere al suo recupero sociale. Ma se questo è il loro fi ne costituzionale, il carcere mi sembra il luogo meno adatto a realizzarlo: com’è possibile reinserire, escludendo? Servirebbe un’offerta trattamentale, che qui è invece carente e solo occasionale. Sulla necessaria relazione con il mondo di fuori prevale, per quanto possibile, l’assistenza dietro le sbarre (di prossimità, ricreativa, sanitaria, soprattutto psichiatrica). Mi aggiro per le sezioni: isolamento, giudicabili e appellanti, definitivi, protetti, AS1 e AS2 (alta e media sicurezza). Osservo. Poi ricordo: “Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono limitarsi, senza altri scopi, a contenere il condannato per il tempo necessario all’esecuzione della pena”. È la formulazione capovolta dell’art. 27, comma 3, Cost. provocatoriamente proposta da Alessandro Margara, che il carcere l’ha conosciuto bene (come giudice di sorveglianza, capo del DAP, garante dei detenuti). Ascolto i racconti dei reclusi. Comprendo quanto sia per loro essenziale “la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà individuale”, come scrive la Consulta (sent. n. 186/2018). Ma è tra le poche cose che riscontro della giurisprudenza costituzionale sul finalismo penale. Da giurista, sono messo a dura prova. So bene che il fatto, per quanto ripetuto, non può farsi norma e scalzare la regola costituzionale, che ne è il parametro di giudizio. Eppure, qui dentro, la gerarchia delle fonti del diritto sembra un’ineffettiva costruzione artificiale.

5. Servirebbe uno sforzo di immaginazione. Non basta, infatti, cancellare la pena di morte, né superare la pena fi no alla morte (l’ergastolo, comune e ostativo). È il carcere che andrebbe abolito, perché laddove c’è strage di legalità c’è anche strage di vite umane (ottantacinque suicidi nel 2022, mai così tanti). Ma un dispositivo abolizionista implica tempi biblici ed esiti incerti, anche solo ad assumerlo come orizzonte la cui linea orienta, ma non è mai raggiungibile. Il carcere, però, si può svuotare il più possibile, riducendolo a extrema ratio. Come? Abbandonando ogni automatismo nel ricorso alla leva penale. Attuando una politica di radicale depenalizzazione. Recuperando gli strumenti di clemenza collettiva. Spodestando dal trono la detenzione, sostituendola con pene alternative (come ha iniziato a fare la riforma Cartabia). Ricalibrando le pene edittali, a cominciare dalla perpetuità dell’ergastolo. Riformando le leggi carcerogene in materia di immigrazione e di sostanze stupefacenti. Tutto ciò non è nell’agenda politica di nessuno. Men che meno del Governo, che si professa “garantista nel processo, giustizialista nell’esecuzione della pena”. Per la doxa dominante, poi, il carcere è sinonimo di giustizia, dunque più il carcere è duro più giustizia è fatta: il doppio binario penitenziario (con i suoi 4-bis e 41- bis) è il risultato di questa equazione.

6. In un contesto così compromesso, “visitare i carcerati” resta un essenziale presidio di legalità. Dal 2016, “monitorare per prevenire” è la funzione istituzionale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dopo un lavoro pluriennale eccellente, i tre membri del suo collegio operano - da marzo - in regime di prorogatio. Il 15 giugno presenteranno la loro ultima relazione al Parlamento: come le precedenti, sarà un prezioso “manuale di istruzioni per carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà” (Adriano Sofri). La nuova terna verrà indicata dal Consiglio dei ministri, previo parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, e nominata con decreto dal Capo dello Stato. La scelta andrà fatta tra persone che “assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani” (art. 7, decreto legge n. 146 del 2013) È una concertazione in cui ciascuno ha voce in capitolo e tutti porteranno la responsabilità dell’esito finale. Sarà un passaggio da seguire con grande attenzione (e qualche apprensione).