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di Viola Ardone

La Stampa, 21 giugno 2022

Non chiamateli generazione Covid, non è giusto che siano ricordati così. È vero, questa esperienza li ha segnati, e per gli studenti di ogni età che in questi giorni ricevono la cosiddetta pagella la mancanza di scuola è stata una delle variabili più determinanti. I voti che appariranno sugli schemi del loro telefonino alla voce scrutinio finale risentono di due anni trascorsi quasi interamente in Dad e di un anno scolastico, quello appena concluso, impiegato a colmare le lacune accumulate, in uno spericolato equilibrismo tra test positivi, negativi, ancora positivi, prima dose, seconda dose, eventuale terza dose, classi in bilico tra online e presenza.

Che cosa ci ha lasciato il Covid dal punto di vista della scuola? Oltre alle cataste di banchi a rotelle finiti in un angolo della palestra e mai più utilizzati, questi anni di disagio hanno lasciato alcune gravi insufficienze nelle abilità di base, quelle che un tempo si elencavano sulle dita di una mano: leggere, scrivere e fare di conto. È quello che emerge dalle rilevazioni statistiche, ma che ciascuno di noi, genitori e insegnanti, sapeva già. È colpa della pandemia, certamente, ma non si può negare che era un fenomeno già in atto, che la pandemia ha messo sotto la lente di ingrandimento. Sapevamo già che i ragazzi fanno sempre più fatica a scrivere un testo in italiano corretto che tenga conto delle 3C della scrittura: coerenza, coesione e completezza. Sapevamo già che il lessico si è appiattito su un linguaggio da social, codificato in una sintassi asfittica e sterilmente paratattica. Sapevamo già che in rete si trovano le soluzioni a tutti i problemi di matematica, le traduzioni di tutte le versioni di greco e latino, le app per decifrare tutte le lingue del mondo e che bisogna riflettere su nuove metodologie di insegnamento. Sapevamo anche che le relazioni tra pari si sono imbrigliate in quelle virtuali in maniera inestricabile e che per alcuni giovani e giovanissimi quel mondo virtuale rischia di diventare una gabbia dorata in cui anestetizzare l’ansia da prestazione tipica dell’adolescenza. Quando hanno perso la scuola in presenza i ragazzi hanno perso l’altra dimensione della loro quotidianità, quella del reale, si sono trovati immersi nel tiepido brodo virtuale e qualcuno ha rischiato di affogarvi. La pandemia ha lasciato lacune nelle competenze di base, è vero, ma su queste abbiamo lavorato tutto l’anno, lo faremo anche nei prossimi e piano piano metteremo a posto programmi, punteggi e valutazioni. Ma la scuola italiana non produce voti, non produce promozioni o bocciature, non produce nemmeno statistiche.

La scuola italiana forma - dovrebbe formare - individui. Persone pensanti, capaci di relazionarsi, di stare insieme ma di concentrarsi anche in solitudine, persone in grado di studiare le variabili di un problema (matematica, italiano, ragioneria, statistica, greco, latino…) e di immaginare possibili soluzioni. Per fare questo ci vuole tempo. Il Covid ha tolto tempo e spazio alla scuola. Ma il tempo e lo spazio per la scuola, ripeto, erano insufficienti anche prima. La pandemia ci ha rivelato che le classi sono troppo affollate. È forse arrivato il momento di pianificare seri interventi di edilizia scolastica. La pandemia ci ha mostrato che i docenti si sono inventati un nuovo lavoro nello spazio di poche settimane, quello di web teacher digitali. È forse il momento di incentivare gli insegnanti anche dal punto di vista economico. La pandemia ha reso più cogente il fenomeno della dispersione scolastica. Ed è forse arrivato il momento di innalzare l’obbligo scolastico ai 18 anni. Passato il tempo dell’emergenza, insomma, è necessario dare inizio al tempo delle proposte e delle soluzioni. Affinché questi ragazzi non siano ricordati come generazione Covid ma come generazione green. Verde, come tutto quello che rinasce ed è destinato a sbocciare.