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di Ilaria Vesentini

Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2024

L’iniziativa Fid-Fare Impresa in Dozza dal 2012 ha prodotto un forte calo dell’indice di reiterazione del reato: dal 60 al 10%. È una piccola officina meccanica come ce ne sono tante lungo la via Emilia, dove si assemblano e si montano componenti e gruppi per le macchine automatiche e dove sono assunti a tempo indeterminato una quindicina di dipendenti, con regolare contratto e stipendio. La particolarità di FID-Fare Impresa in Dozza, è che a lavorare sono i carcerati della casa circondariale di Bologna e che la fabbrica è racchiusa dentro le mura dell’istituto di pena in via del Gomito. La Srl metalmeccanica è frutto di una iniziativa unica nel panorama nazionale che nel 2012 ha messo insieme i tre principali concorrenti mondiali insediati nella packaging valley bolognese - i gruppi Marchesini, Ima e GD - azionisti e committenti di FID con un 30% a testa del capitale, protagonisti assieme alla Fondazione Aldini Valeriani (l’altro 10% delle quote, Fav si occupa della formazione tecnica professionale) di un progetto che ha permesso fin qui l’inserimento in pianta stabile nelle piccole aziende della subfornitura emiliana di una cinquantina di ex detenuti, una volta scontata la condanna.

“Io, Alberto (Vacchi, presidente e ad di Ima, ndr) e Isabella (Seragnoli, presidente di Gd-Coesia, ndr) siamo amici oltre che concorrenti e amiamo fare cose complesse - racconta Maurizio Marchesini, numero uno dell’omonimo gruppo di Pianoro e presidente di FID - e attivare un’azienda in carcere è davvero una cosa complicata. Ma è bastata una telefonata per metterci d’accordo e dare forma alla scintilla accesa da Italo Minguzzi”.

Un avvocato che nel 2010 era nel cda di Ima e lanciò l’idea assieme a Marco Vacchi, allora al vertice sia di Ima sia della Fondazione Aldini Valeriani. Minguzzi è ancor oggi presidente onorario della piccola azienda da 200mila euro di fatturato annuo, società di capitali con finalità sociale (non distribuisce utili) guidata da Gianguido Naldi, ex dipendente e sindacalista Coesia nonché ex segretario Fiom Bologna ed Emilia-Romagna. Un’alleanza tra industria, scuola, sindacato e amministrazione penitenziaria che diventa attività concreta grazie ai tutor, operai e tecnici in pensione (ex dipendenti) dei tre big del packaging che in modo volontario affiancano i lavoratori di FID. Figure strategiche e insostituibili sia per la riuscita del percorso professionale dei detenuti dentro il carcere sia nella fase del loro reinserimento in società a fine pena, perché diventano maestri di vita, punti fermi di riferimento. Come confermato dalla ricerca “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” commissionata all’Università di Bologna e presentata lo scorso giugno, per valutare i risultati raggiunti da FID nei primi dieci anni di vita e definire nuovi obiettivi e replicabilità.

“I dipendenti di FID fanno turni di 30 ore settimanali, 6 ore al giorno da lunedì al venerdì perché i ritmi carcerari non permettono di mandarli in fabbrica un’ora prima e farli uscire un’ora più tardi per coprire le canoniche otto ore - spiega Naldi -. Il carcere seleziona 20-25 candidati tra i detenuti e noi ne scegliamo circa una metà che ammettiamo al corso di formazione di 280 ore tra lezioni teoriche e stage, tenuto dalla Fondazione Aldini Valeriani, privilegiando chi ha già qualche esperienza nel settore meccanico e chi ha un orizzonte di pena residua da scontare di 3-4 anni, per garantire da un lato la rotazione di chi ha accesso a questa opportunità e, dall’altro, per non dover ripartire ogni anno da zero. Produttività ed efficienza dipendono molto dall’esperienza, le commesse sono assicurate dai soci e si tratta di lavori manuali altamente specializzati. In questo momento siamo alle prese con il problema di dover formare in fretta nove detenuti neoassunti, perché sono uscite 11 persone in blocco e servono un paio d’anni per imparare bene il mestiere”.

“Non siamo gli unici ad aver avviato aziende in carcere, ma credo sia unico il gioco di squadra che ha permesso il successo di questo progetto, che coinvolge tutta la filiera - sottolinea Marchesini - perché dopo il percorso formativo e lavorativo in Dozza sono le nostre piccole aziende subfornitrici ad assumere gli ex detenuti: offrono un luogo più semplice e più inclusivo dove lavorare rispetto alle nostre grandi realtà industriali. Credo che la civiltà e il progresso di un territorio si misurino anche dalla sua capacità di recuperare chi ha commesso crimini. O buttiamo via le chiavi del carcere o a tutti conviene che queste persone vengano riabilitate e reinserite in società avendo acquisito competenze e abilità spendibili sul mercato. L’indice di reiterazione dei reati è del 10% tra chi ha completato il percorso in FID (contro un dato medio nazionale del 60%, ndr)”. Paradossalmente, però, il carcere è un ambiente protetto e i problemi più grossi del progetto FID emergono nella fase di reinserimento a fine condanna: uno stipendio di 1.200 euro al mese è un privilegio tra le mura della Dozza, poca cosa quando si deve trovare casa e pagare le utenze con lo stigma dell’ex detenuto.

Sono una cinquantina (65 con i detenuti al lavoro oggi in FID) le persone assunte nella filiera di Marchesini-Ima-GD, cui dal 2019 si è aggiunta anche la Faac dei cancelli automatici come committente. Il prossimo passo è allargare spazi e occupati in carcere e replicare il modello in altri istituti di pena, riprendendo progetti congelati dal Covid. “Stiamo chiedendo di ampliare lo stabilimento dentro la Dozza, la domanda di lavorazioni meccaniche è in forte aumento, anche perché fuori le aziende non trovano personale da assumere, mentre noi potremmo facilmente raddoppiare i detenuti da inserire in officina - precisa l’ad Naldi -. E vorremmo riprendere le attività dell’ex caseificio che fino a pochi anni fa operava dentro il carcere”.