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di Massimo Selleri

Il Resto del Carlino, 1 febbraio 2024

“Fare impresa in Dozza” è un’azienda metalmeccanica e fattura 300mila euro all’anno. Passare dalla cultura dell’espediente a quella del lavoro mantenendo quelli che sono i canoni tipici di una qualsiasi azienda. È la sfida che sta vincendo “Fare impresa in Dozza”, l’impresa sociale che a maggio compirà 12 anni e che è nata all’interno della Casa circondariale di Bologna. Il progetto è stato avviato nel 2012 da G.D., IMA, e Marchesini Group e a questi tre colossi della Packaging Valley nel 2019 si è unita anche Faac, la multinazionale leader nella produzione di cancelli automatici. Al fianco di queste realtà imprenditoriali ha giocato, e gioca tuttora, un ruolo fondamentale anche la Fondazione Aldini Valeriani che si occupa di formazione professionale a tutto tondo.

Questa “fabbrica in carcere” ha un fatturato annuo di circa 300mila euro, una cifra non sufficiente per chiudere in parità il bilancio anche se andando a spulciare tra le varie voci si scopre come il passivo sia per lo più composto dalle spese necessarie per la formazione permanente del personale. Questo era uno degli obiettivi che si erano posti i soci quando hanno deciso di dare vita a questa esperienza unica in Italia, ed è per questo motivo che ripianano sistematicamente le perdite consapevoli della missione sociale di Fare Impresa alla Dozza che si occupa dell’assemblaggio di pezzi meccanici e della costruzione di singoli componenti.

Gli operai fluttuano dalle 14 alle 16 unità e sono tutti regolarmente assunti con il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. Si tratta di detenuti che devono scontare una pena che si aggira dai tre a ai cinque anni e ai quali viene offerta questa opportunità lavorativa. Non sono necessari particolari competenze perché l’obiettivo è imparare lavorando e il percorso inizia con un periodo di qualche mese di formazione, organizzato dalla fondazione, per poi arrivare negli spazi dell’officina che è stata allestita in una vecchia palestra del carcere. A quel punto il nuovo lavoratore viene seguito da un tutor che gli insegna i diversi segreti del mestiere. I tutor sono ex operai montatori in pensione che ricevono un semplice rimborso spese.

“Per raggiungere tutte le competenze necessarie - spiega l’amministratore delegato di Fid, Gian Guido Naldi - un lavoratore ha bisogno di un tempo che si aggira attorno ai due-tre anni. Durante questo periodo, si instaura un rapporto col tutor che è molto importante non solo dal punto di vista professionale, ma soprattutto sul piano educativo. C’è un confronto tra modelli di vita e questo porta alla costruzione di un legame che dura nel tempo e che si mantiene anche fuori dal carcere”. I numeri. In questi dodici anni Fid ha avuto circa 70 operai e di questi 50 non sono più reclusi alla Dozza: alcuni hanno concluso la loro pena, altri stanno svolgendo una pena alternativa e una trentina sono liberi. Questi ultimi hanno tutti un’occupazione nel settore e alcuni di loro sono già trasfertisti per l’azienda che li ha assunti, spesso una realtà appartenente alla filiera dei soci fondatori. L’impatto sociale è notevole si si considera che tra tutte le persone che hanno seguito questo percorso solo il 10% reitera un reato, un dato molto distante da quello complessivo e che vede il 73% degli ex detenuti tornare in carcere entro cinque anni dalla conclusione della loro pena precedente.