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di Francesco Moroni

Il Resto del Carlino, 3 marzo 2024

“Siamo indietro, non c’è dubbio - risponde Antonio Ziroldi, presidente aggiunto dell’ufficio gip e gup -. Ma non è solo un problema di Bologna, purtroppo. La riforma ha dettato le regole di carattere generale, che individuano un percorso comune, ma mancano ancora le specifiche applicative”.

Facciamo un passo indietro: cosa si intende, nello specifico, per giustizia riparativa?

“Un percorso che, auspicabilmente coinvolge, sia l’imputato sia la persona offesa, se presente, per arrivare a una ricomposizione della frattura che si crea con il reato. E a una serie di ricadute che possono essere, ad esempio, la remissione di querela se possibile o la concessione di attenuanti”.

Ci sono degli incontri, senza contatto tra le parti?

“Sì, esatto, attraverso i mediatori. Poi, a fine percorso, viene redatta una relazione finale”.

L’autorità giudiziaria può disporre il percorso anche d’ufficio?

“Sì, la riforma a livello teorico è un po’ double face, diciamo. È sicuramente figlia di un’idea illuminata e avanzata di giustizia penale, ma è anche stata oggetto di critiche sul piano strettamente processuale”.

Ci spieghi meglio...

“Si è detto che il giudice, anche d’ufficio, dispone il percorso di giustizia riparativa: in questo caso, quindi, come effetto dell’accertata esistenza di un reato. Ecco perché diversi autori e penalisti hanno criticato il percorso definendolo ‘distonico’ rispetto alla sussistenza del reato. E forse direi che non hanno tutti i torti...”.

Dicevamo, però, che a mancare sarebbero soprattutto le specifiche applicative...

“Mancano i centri per la giustizia riparativa e manca il personale. Finché non avremo le strutture, quindi finché non si attivano gli enti locali e la conferenza della giustizia riparativa, in modo da risolvere una serie di adempimenti formali e procedurali attualmente ancora non implementati, non c’è possibilità di un percorso. Eppure ci sarebbero delle alternative”.

Quali?

“Bisogna interrogarsi su quelle forme di giustizia già presenti. Esistono i centri di mediazione, che però hanno una finalità diversa, cioè di carattere civile e familiare. Va detto che noi, come ufficio, siamo stati investiti abbastanza sporadicamente di queste istanze: forse perché anche gli avvocati sanno che è un percorso difficile”.

Che soluzioni potrebbero esserci?

“Ci stiamo interrogando, da un lato, sulla possibilità di promuovere e sollecitare l’attivazione a livello locale coinvolgendo una serie di attori. Occorre che il sistema sia strutturato. Ma è il ministero che deve coordinare e, in questo momento, sembra di capire che nella sua agenda l’attivazione immediata dei percorsi non sia una priorità”.

E dall’altro lato?

“Serve capire in che termini sia possibile un utilizzo esteso della materia. Ci sono delle strutture e dei progetti già avviati da Comune e Regione, va chiarito se questi centri possono essere utilizzati fino a quando non saranno attivate le strutture apposite. Teniamo conto del fatto che tutto questo, fino ad ora, ha avuto uno scarso appeal. Tuttavia ci sono tanti spunti di riflessione”.

Manca anche il personale, diceva...

“I mediatori penali non ci sono. Anche perché, guardando alla riforma, ci sono una serie di norme che prevedono una formazione adeguata per i mediatori. E ad oggi manca”.

Rispetto all’udienza specifica dell’altro giorno sulla violenza sessuale, cosa ci dice?

“Il processo è stato rinviato, il nostro ufficio ha una figura ad hoc che si sta occupando di tutti questi argomenti. L’auspicio è che in questi mesi possa esserci un’accelerata tale da garantire l’avvio di un percorso. Ma, come ho detto all’inizio, la sensazione è che siamo davvero indietro”.