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di Lorenza Pleuteri

Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2022

Nessun colpevole per il decesso del detenuto a rischio. Nessun colpevole nemmeno per la fine tragica di Haitem Khedhri, il ragazzo tunisino morto dopo le rivolte scoppiate alla Dozza di Bologna il 9 e il 10 marzo 2020, il tredicesimo e ultimo deceduto nella lista nera delle vittime della strage carceraria di quei giorni. Era un soggetto fragile, a rischio di suicidio, con una scorta di micidiali farmaci in cella, quelli rubati nell’assalto all’infermeria. Andava protetto, anche da se stesso. E invece. Hanno avuto la priorità “la messa in sicurezza del penitenziario e il mantenimento del dialogo con i detenuti”. Il caso è chiuso. Le responsabilità sono state addossate tutte e solo a lui, il morto, “reo” di aver fatto incetta di medicinali e di avere assunto un mix letale di pillole e intrugli, la causa accidentale del decesso.

Alla dirigenza e al personale dell’istituto la magistratura penale non addebita alcuna colpa, neppure per omissioni o carenze, escluse. Il gip di Bologna Alberto Gamberini, valutate integrazioni investigative e opposizioni, ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla procura. Lo ha fatto il 9 dicembre 2021, con il decreto notificato al Garante nazionale dei detenuti (riconosciuto dal giudice come persona offesa, diversamente che nell’inchiesta-madre modenese) e alla Camera penale di Bologna (esclusa dal ruolo di persona offesa). Il reato ipotizzato è caduto era la morte come conseguenza di altro delitto, il procedimento contro ignoti.

Ora le sette pagine del provvedimento sono disponibili grazie al giudice che le ha redatte. L’8 e il 9marzo, ricorda Gamberini, il penitenziario di via del Gomito venne messo a ferro e fuoco da centinaia di reclusi, in rivolta per il blocco dei colloqui con i familiari e le altre restrizioni dovute all’emergenza Covid: “Risultava allagato, privo sistema elettrico, incendiato in numerosi settori e completamente privo di controllo-video perché i riottosi avevano distrutto tutte le telecamere installate… Diversi detenuti erano riusciti a salire sul tetto ed avevano incendiato le guaine, approfittando della posizione favorevole per lanciare oggetti contundenti ed infuocati in direzione degli agenti e facendo esplodere due automezzi dei carabinieri”.

All’interno dell’istituto “tutti i cancelli di separazione tra le varie sezioni ed i diversi piani del settore giudiziario erano stati divelti, così come le porte blindate di accesso alle infermerie. Di conseguenza la popolazione detenuta - in elevata percentuale tossicodipendente - aveva la disponibilità di un altissimo numero di farmaci e sostanze psicoattive, potenzialmente rischiose per la salute. Simile contesto impediva qualsiasi accesso e controllo da parte delle istituzioni, che per tutta la giornata del 9 e del 10 marzo rimanevano all’esterno del muro di cinta cercando di rientrare in possesso del penitenziario”, riconquistato alle sette di sera.

A quel punto, rileva sempre il gip Gamberini, c’erano interventi da effettuare “con assoluta tempestività”, in primis “ripristinare l’energia elettrica, liberare il passaggio nelle scale di collegamento tra i vari piani, asportare l’acqua dal pianterreno completamente allagato, assicurare la corretta allocazione dei detenuti nelle loro celle e verificarne le condizioni sanitarie, così da mettere in sicurezza coloro che fossero risultati feriti dagli scontri”. Haitem non aveva ferite. Non chiese aiuto. Ma si sentiva stordito, come disse al compagno di cella. E si stese in branda, passando dal sonno alla morte una manciata di ore più tardi. La sua cella venne perquisita dopo il decesso, non prima, sebbene si sapesse delle razzie di farmaci e delle fragilità del ragazzo straniero.

Perché? Se lo domanda anche il gip, dando una risposta che chiama fuori direzione e personale. “Occorre chiedersi se, in quelle condizioni di tempo e di luogo, una tempestiva irruzione degli agenti nelle celle avrebbe scongiurato qualche rischio letale o se, piuttosto, sarebbe stata percepita come un’indebita violazione dello spazio personale dei detenuti ed avrebbe dato adito a nuove frizioni e possibili rivolte. Considerando che le ragioni scatenanti delle sommosse attenevano ai diritti più intimi della personalità, quali il mantenimento delle relazioni coi familiari e l’evitare un isolamento totale dal mondo “esterno”, forme ancora più penetranti di violazione della sfera individuale dei detenuti avrebbero ben potuto creare disordini ulteriori”.

Per questi motivi, a detta de giudice, dalla direzione del carcere non si poteva esigere “un comportamento di tipo diverso, non potendosi ravvisare una culpa in vigilando per non aver tempestivamente perquisito, dopo una rivolta durata due giorni, le celle dei circa 400 detenuti coinvolti nelle sommosse. Una simile pretesa sarebbe stata anzitutto poco lungimirante, poiché avrebbe manifestato una totale insensibilità delle istituzioni carcerarie alle istanze avanzate dai detenuti, in secondo luogo pericolosa, poiché violare la privacy individuale indispone naturalmente il perquisito, sicché avrebbe rischiato di incendiare nuovamente i rapporti tra le parti. Di conseguenza risulta ragionevole la scelta della direzione di non procedere immediatamente ad una perquisizione generalizzata, quantomeno sotto il profilo del mantenimento della situazione in sicurezza. Le regole cautelari generali del caso concreto imponevano di avere come prioritario fine il mantenimento del dialogo appena riacquisito con i detenuti”.

Inoltre, viene sottolineato, non c’era un obbligo di legge che imponesse al personale di perquisire in tempo reale le celle. Così Haitem rimase con una scorta di più di 100 pasticche di seroquel, tavor, akineton, liryca e stilnox (quelle inghiottite e iniettate nel cocktail letale e le 103 trovate sotto materasso) e 6 siringhe (una con ago utilizzata e 5 integre). E il suo nome si è aggiunto a quello dei tre deceduti contati al carcere di Rieti e dei 9 modenesi. Argomenta ancora il giudice Gamberini: “Il nesso causale tra l’omessa perquisizione ed il decesso non può essere accertato oltre ogni ragionevole dubbio, poiché esiste la concreta possibilità che alcun comportamento alternativo avrebbe scongiurato il rischio letale. Sotto il profilo dell’opportunità di una tale perquisizione, alla luce del contesto drammatico in cui si svolgevano i fatti, è presumibile che essa sarebbe stata percepita come ingiustificata, illegittima e prepotente dalla popolazione detenuta, dando adito a nuovi scontri. Pertanto, era inesigibile da parte della direzione un comportamento diverso. Il preminente interesse da salvaguardare in quel momento era la messa in sicurezza del penitenziario e delle persone detenute”, tra cui c’era anche Haitem, il ragazzo straniero fragile, a rischio di suicidio, il morto numero 13 dei giorni delle rivolte.