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di Marco Madonia

Corriere di Bologna, 25 giugno 2023

Il bilancio di Fid (Fare impresa in Dozza): il progetto di Marchesini, Ima e Coesia. La dedica a Flavia Franzoni. “L’idea è venuta all’avvocato Italo Minguzzi, all’epoca nel cda di Ima. Ci fu un giro di telefonate, ci siamo visti e siamo partiti. Minguzzi è rimasto presidente onorario e Gianguido Naldi amministratore delegato.

È stato un percorso lungo, ma pieno di soddisfazioni”, dice Maurizio Marchesini. Insieme a Isabella Seràgnoli (Coesia) e Alberto Vacchi (Ima) ebbero la folle idea di immaginare una fabbrica nel carcere della Dozza per dare formazione, lavoro, stipendio e speranza ai detenuti. Così sono diventati i soci fondatori di Fid (Fare impresa in Dozza). Un’esperienza che è stata raccontata nel libro “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” scritto da Valerio Pascali e Alvise Sbraccia.

Marchesini, qual è il suo bilancio?

“I progetti in carcere non sono mai semplici. Noi facciamo montaggio e aggiustaggio, per l’officina gli attrezzi fondamentali sono seghetti, lime e trapani. Non proprio gli oggetti più facili da portare in carcere. Faticosamente abbiamo iniziato e ci siamo riusciti”.

Cosa ha convinto lei e gli altri imprenditori a impegnarvi?

“Siamo convinti che il grado di civiltà di una società si veda anche dalla capacità di recupero di chi ha sbagliato. Escludere chi delinque non solo non è possibile, ma è anche un peccato mortale. Conviene a tutti dare una possibilità vera. In questo percorso il lavoro è fondamentale”.

Come funziona?

“Della formazione teorica si occupa la Fondazione Aldini Valeriani, poi ci sono i tutor che affiancano i detenuti. Si tratta nella maggior parte dei casi di lavoratori in pensione di Marchesini, Ima e Coesia”.

Dalle interviste con i detenuti emerge che il rapporto con i tutor è l’aspetto che funziona meglio...

“Sono montatori, fanno parte di quella aristocrazia operaia che è andata in giro per il mondo facendo funzionare le nostre macchine parlando solo in dialetto. Anche ai detenuti stranieri parlano in dialetto. Tanti sono stati poi assunti nella nostra filiera. Purtroppo non si risolve tutto così”

Perché?

“Quando escono hanno gravi difficoltà di inserimento, il carcere paradossalmente è un ambiente protetto, magari si ritrovano fuori senza famiglia e amici, fanno fatica a trovare casa o più banalmente ad avere documenti e un medico. Lo stigma del carcere è molto pesante. Vorremmo fare un passaggio in più, per dare una mano anche fuori”.

Cosa intendete fare?

“Non abbiamo competenze e capacità in questo campo, cerchiamo di coltivare rapporti con il volontariato e con le istituzioni. Loro potrebbero dare un contributo soprattutto sul versante della casa”.

È questo che volete fare nei prossimi dieci anni?

“Un obiettivo condiviso con Flavia Franzoni, era una nostra consigliera e a lei dedichiamo questo anniversario. Vorremmo fare vedere anche ad altri imprenditori che si può fare. Lo stesso sottosegretario Ostellari dice che sostenere il lavoro in carcere è una garanzia per la società”.

L’esperienza di Fid mette insieme imprenditori concorrenti e figure molto lontane per cultura politica.

“Credo che la coesione sociale di questo territorio si veda proprio nelle situazioni complesse. In questa azienda ci sono persone che vengono dall’associazionismo cattolico e anche dalla sinistra. Il nostro capo officina è l’ex consigliere Valerio Monteventi”.

Altri progetti?

“Abbiamo dato una mano a Cisco, la multinazionale americana che si occupa di software e ha un programma di corsi di informatica. Abbiamo presentato il progetto e cablato la stanza. Chi supera quel corso ottiene un diploma che vale in tutto il mondo”.

Il rapporto con il carcere?

“Non appena alla Dozza sono arrivate direttrici donne siamo partiti e abbiamo risolto i problemi. Prima ci dicevano che era bello, ma difficile da realizzare...”.