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di Emanuela Giampaoli

La Repubblica, 21 agosto 2023

Intervista al direttore del Ceis Giovanni Mengoli che a Bologna ospita 102 ragazzi stranieri, con posti già in deroga, sempre pieni. “È un fallimento, una grossa sconfitta, ma non si poteva fare altro, concordiamo con il Comune. Non abbiamo più posti, nemmeno per i minori non accompagnati. Nessuno vorrebbe mandare in strada questi ragazzi ma in certi casi è meglio dire di no”. È netto padre Giovanni Mengoli, presidente Gruppo Ceis che a Bologna ospita 102 ragazzi stranieri, con posti già in deroga, sempre pieni.

Perché questo è un caso in cui bisogna dire no?

“Perché l’accoglienza è un sistema, noi siamo l’ultima ruota del carro, c’è il Comune, la questura, la prefettura, l’Asl, la Regione con la formazione, il tribunale dei minori, il garante. Il sistema funziona se tutti fanno la propria parte, se ogni attore si limita a fare lo stretto necessario fallisce. È un no dettato dal fatto che non sono dei pacchetti questi ragazzi e che noi vogliamo assolvere a un bisogno di tipo educativo, che è già complicato così. Sono ragazzi fragili, con problemi di devianza talvolta, quindi vanno seguiti. Sembra che il punto sia trovargli una brandina e basta”.

Forse piuttosto che metterli in strada...

“Noi non abbiamo messo in strada nessuno, ma i posti non ci sono e non possiamo accoglierne altri. Mi risulta che qualcuno fuori è rimasto, i meno fragili, i più grandi, diciassettenni che per la vita vissuta è come se ne avessero 20 di più, poi è lo stesso un fallimento. Abbiamo ragazzini del 2008 ed è ovvio che non li abbandoniamo. Sono già adolescenti con un piede dentro e uno fuori, a rischio, per farne cittadini di domani, cosa in cui credo, occorre educarli. E noi già fatichiamo così, mancano operatori, ne servirebbero il doppio”.

Che percorsi proponete?

“La formazione è in carico alla Regione, li preparano per diventare muratori, elettricisti, idraulici, per stare in cucina. Chi si impegna, e sono la maggior parte, poi trova un lavoro. Lavori che in Italia non vuole fare più nessuno e che servono. Quando arrivano li alfabetizziamo, c’è chi deve prendere il diploma di terza media, poi per un biennio si formano. E questo deve essere possibile per tutti. Ma ognuno deve fare la sua parte: la nostra è dargli una casa, accompagnarli nella formazione, far sì che la sera rientrino. Qualcuno in questi giorni suggeriva di mandarli in famiglia. Se le famiglie ci fossero, ne saremmo felici, le supportiamo anche, ma sono poche”.

Da dove e soprattutto da cosa fuggono questi ragazzi?

“Principalmente dalla miseria, qualcuno dalla guerra come i somali, di recente stanno arrivando dal Gambia per via della crisi climatica, molti dalla Tunisia per l’instabilità politica del Paese, poi Albania e Pakistan. L’età media è 16 anni, quasi tutti maschi, ma ci sono anche ragazze, e si può immaginare da quali contesti siano fuggite. Tutti hanno fatto esperienza di violenza e anche su questo bisogna lavorare. Poi c’è un ultimo aspetto, forse il più importante: va ricostruito il senso di un percorso migratorio, dar loro una prospettiva, altrimenti in strada rischiano di finirci comunque”.