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di Raffaella Collina, Roberto Morgantini e Andrea Segrè*

Corriere di Bologna, 5 settembre 2024

Il 30 agosto abbiamo portato il pranzo a un gruppo di detenuti nel carcere della Dozza. Varcata la soglia, lasciati cellulari e documenti, si entra davvero in un altro mondo. Un mondo a parte, senza più identità. Lo ascolti nelle voci che escono dalle celle, lo vedi nei vestiti variopinti appesi alle finestre sbarrate, lo senti nei cancelli che si aprono e chiudono al tuo passaggio. Nella sala cinema ci siamo trovati con una trentina di uomini, di ogni età e diverse origini. A ognuno abbiamo dato un piatto con il cibo preparato da Raffaella. C’è chi ha mangiato due volte il primo, chi tre volte il secondo, chi ha portato il dolce in cella. In cambio ognuno di loro ci ha detto una parola, anche solo “grazie” con accenti sempre diversi.

Una ricchezza, questa diversità, che si vede a tavola quando si mangia assieme. È così è stato per loro, finalmente riuniti attorno a un tavolo in quattro, in sei, in otto. Un sovraffollamento, questo sì, che crea legame, relazione, condivisione, convivialità. Seppure in una cucina, è proprio il caso di dire, in massima sicurezza. Tutto è durato due ore, proprio il tempo di un film. Poi le luci si sono spente e gli attori “esterni” se ne sono andati. Mentre quelli interni sono rimasti e continueranno a vivere e a mangiare nel carcere come prima: male.

Tranne chi può permetterselo: un’altra diversità, un’altra ricchezza, un’ulteriore disuguaglianza. A noi, e non è la prima volta che andiamo a vedere come si mangia solitamente in carcere, è rimasta la certezza che qui si nega un altro diritto: il diritto al cibo. Perché mangiare bene, in quantità e qualità sufficiente, nutriente, compatibile culturalmente dovrebbe essere un diritto. Anzi lo è, se è vero che il diritto al cibo viene riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Non è accettabile che in questo mondo a parte, ristretto, ma pieno di umanità, non si riesca a garantire almeno un pasto adeguato, tutti i giorni dell’anno.

Dobbiamo fare qualcosa, anche se sappiamo bene che si tratta di un contesto molto difficile. Qualcosa di più di attirare l’attenzione delle istituzioni. È un impegno. Grazie alle guardie carcerarie, all’educatrice Valentina e alla direttrice Rosa Alba Casella che dedicano la loro vita professionale agli istituti penitenziari.

*Cucine Popolari di Bologna