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di Manuel Colosio

Corriere della Sera, 7 maggio 2022

Fino a 9 in una cella con una sola turca. Il sovraffollamento fa aumentare i disordini. Il criminologo Carlo Alberto Romano: questa non è giustizia, è vendetta. Il cronico sovraffollamento di Canton Mombello pone questioni che vanno ben oltre i preoccupanti numeri.

Problemi sanitari, difficoltà a realizzare progetti di reinserimento e processi di aggravamento del disagio psichico non sono solo le inevitabili conseguenze del tasso fissato recentemente dall’Associazione Antigone al 185%, ovvero 334 detenuti rispetto ad una capienza di 189 posti, ma anche quelle di un sistema penitenziario giudicato “fallimentare e che dovrebbe essere completamente rivisto”. Che la situazione sia insostenibile lo si intuisce dal crescendo di disordini registrati negli ultimi mesi (episodi di autolesionismo, risse, aggressione nei confronti degli agenti, materassi dati alle fiamme).

Considerazioni di chi il carcere lo guarda con gli occhi dell’educatore, come Marco Dotti della Cooperativa di Bessimo, operatore sociale nelle carceri bresciane da 15 anni che si trova ora a Canton Mombello dove “Nei cosiddetti “celloni”, gli spazi più grandi condivisi da quindici reclusi, è presente una sola turca con sopra un unico soffione della doccia. In pratica ci si lava a turno dove poco prima qualcuno ha fatto i propri bisogni”. Ammette come le attività interne siano estremamente ridotte “ed è tutto molto difficile, nonostante lo sforzo e l’impegno profuso anche dagli stessi detenuti che gestiscono buona parte della biblioteca e degli spazi d’aria”.

Il centro diurno interno non è molto frequentato, così come sono pochi coloro che si iscrivono a scuola e ai corsi di formazione interni “perché l’ambiente è deprivante, la struttura inadeguata e quindi la depressione dilaga”. Un disagio psicologico che non può certo aiutare a produrre percorsi di riabilitazione, seppure “siano marginali i detenuti che hanno sulle spalle condanne per reati pesanti” e quindi, anche per questo motivo sarebbe possibile, oltre che necessario, ripensare “ad un nuovo sistema, in cui la detenzione diventi residuale e si favoriscano invece interventi riabilitativi”. Dotti conclude constatando come, in un contesto così afflittivo, “fare l’operatore sociale diventa una contraddizione e mostra il fallimento del carcere come strumento di reinserimento”.

Alla medesima conclusione giunge anche il docente di Criminologia all’Università degli Studi di Brescia, Carlo Alberto Romano, secondo il quale “un sistema penitenziario in tali condizioni appartiene alla categoria della vendetta, non certo della giustizia. In questo modo non risponde all’altissimo compito che la Costituzione gli affida”.

Per rispettarlo sarebbe necessario diventi “solo una extrema ratio, preferendo altri sistemi di sanzioni”. Sostiene sia una evidente scelta politica privilegiare l’aspetto securitario, ricordando come “non sono stati aumentati le risorse agli uffici dell’esecuzione penale esterna quando si sono aggiunte migliaia di “messa alla prova”, importante strumento alternativo, mentre i concorsi per la polizia penitenziaria continuano ad essere promossi”.