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di Mara Rodella

Corriere della Sera, 22 luglio 2023

Per Carlo Alberto Romano, docente e anima dell’associazione Act, rinsaldarlo è l’unica strada. Ma “serve aiuto per gestire psichiatrici, tossicodipendenti e stranieri”. Quel filo sottile che dovrebbe legare la città e il “suo” carcere. I cittadini dentro e quelli fuori, “accecati” dalle mura e dal filo spinato, a convincersi sia un mondo a sé.

Da quando è nata, ormai 26 anni fa, l’associazione Carcere e Territorio lavora proprio per e con le persone private della libertà, nella logica di una relazione partecipata verso la riabilitazione. A fondarla fu Giancarlo Zappa, magistrato e giudice di sorveglianza, antesignano del volontariato in carcere. “Ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del diritto penitenziario italiano e forse a Brescia nemmeno ci rendiamo contro di quanto sia stato illuminato e prezioso”, ricorda il presidente, Carlo Alberto Romano, docente di criminologia a Unibs. Recuperandone il pensiero: “Non può esistere l’esecuzione penale avulsa dalla comunità nella quale ha luogo.

Penso al carcere, che troppo spesso dimentichiamo ne faccia parte, ai percorsi esterni, alle misure alternative, che raggiungono il proprio obiettivo, costituzionale, se la comunità è attenta e partecipe”. Perché succeda, però, “occorre sviluppare la cultura della pena, intesa come strumento per recuperare una vita degna di chiamarsi tale”. Anche facendo riflettere i ragazzi: con gli incontri, i confronti, l’arte.

Servono le misure alternative. Perché “il carcere, da solo, non ce la fa”: per i numeri, la gestione, le presenze “di persone che in carcere non dovrebbero stare, come dimostrano, anche a Canton Mombello, i sempre più numerosi episodi di aggressività lamentati, giustamente, anche dalla polizia penitenziaria”. Perché per Carlo Alberto Romano, la vera emergenza di Canton Mombello non è data da un sovraffollamento ormai cronico, che sfiora il 100%. “Il problema principale a mio modo di vedere è la rottura del patto fiduciario dentro il carcere: fino a una ventina di anni fa, operatori dell’area educativa, detenuti e penitenziaria riuscivano a lavorare insieme costruendo percorsi trattamentali grazie ai quali i reclusi capivano quale avrebbe potuto e dovuto essere la loro strada e si avviavano con consapevolezza e fiducia verso il raggiungimento di questi obiettivi”.

Oggi, invece, “purtroppo questo è quasi venuto meno”, lasciando il passo a “una contrapposizione che poi si riverbera nella violenza. Dobbiamo recuperare il senso del lavorare insieme perché l’esistenza di ciascuno è interesse di tutti: in termini di sicurezza, tutti noi vogliamo abbattere le recidive e fare in modo che i reati calino, e perché tanti ragazzi, uomini e donne, sprecano l’esistenza nel circuito penitenziario e nella recidiva”.

Eppure i progetti per l’inserimento lavorativo non mancano, come dimostra il recentissimo accordo siglato tra gli Istituti di Pena, la garante dei detenuti e il Tribunale di Sorveglianza di Brescia. “È fondamentale. Perché dimostra che questa è la strada: la comunità, che interviene e mette a disposizione risorse. Brescia è fertile e vogliamo continuare in questo solco, ma serve più presenza collettiva nei percorsi di esecuzione della pena, o andremo incontro a situazioni molto complicate”. Anche a causa di chi si trova dentro una cella, ma avrebbe bisogno di un aiuto diverso.

Per Carlo Alberto Romano, tre categorie necessiterebbero di particolare attenzione: “I tossicodipendenti, che dal carcere non traggono alcun giovamento e hanno bisogno di risposte legate alla loro condizione; le persone con disagi psichici (presenze accentuate dal passaggio dagli Opg alle Rems che non hanno ancora capacità ricettiva sufficiente) per le quali la polizia non è formata così come non è attrezzata l’area sanitaria che si trova a gestire molti più casi rispetto a dieci anni fa, e gli stranieri”, che sono circa il 70%.

E in carcere “vivono una condizione di particolare fragilità dovuta a una serie di ragioni come la capacità di reinserimento, di relazione o di trovare poi un lavoro o un alloggio” ma per il professor Romano bisogna concentrarsi su un aspetto base: quello verbale. “In cella c’è un gap linguistico spaventoso. Molti degli episodi di violenza si potrebbero evitare semplicemente se si riuscisse a comunicare almeno in una lingua ausiliaria, per evitare molte esasperazioni aggressive”. La via da seguire, per chi lavora in carcere, è una: “Svuotarle e usare molto di più la comunità che ha capacità riabilitative e relazionali in grado di produrre risultati o il sistema collasserà”.