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di Sarah Crespi

La Prealpina, 8 gennaio 2023

Sopralluogo nel carcere di via per Cassano: Nessuno Tocchi Caino rilancia l’allarme. L’ultima frontiera (o forse spiaggia) della sanità penitenziaria? La diagnosi di patologie psichiatriche in videochiamata. Rita Bernardini, presidente dell’organizzazione non governativa Nessuno Tocchi Caino, ieri pomeriggio è uscita dal carcere di Busto Arsizio sbigottita.

“Gli psichiatri sono pochi in Italia e quei pochi non vogliono lavorare nelle strutture detentive, è un dato di fatto. Ma la situazione sta peggiorando a vista d’occhio”.

Bernardini e il suo team hanno trascorso l’Epifania in via per Cassano insieme al direttore Orazio Sorrentini, al cappellano don David Maria Riboldi, all’onorevole Maria Chiara Gadda e al presidente della camera penale di Busto Samuele Genoni, accompagnato da altri due avvocati. Era una delle tappe del Viaggio della speranza nei luoghi di pena, partito a San Silvestro da Regina Coeli. Giovedì l’ong ha visitato i Miogni a Varese, oggi sarà a Parma.

L’associazione è stata accolta da 374 reclusi (la capienza è di 240 posti), ognuno con le proprie esigenze, con le richieste più disparate, con cento interrogativi sulle conseguenze della riforma Cartabia. “Chiediamo per l’ennesima volta al Governo di diminuire la popolazione carceraria, oggi ho visto celle con letti a castello a tre piani, prima di Natale c’erano 400 persone, solo 74 detenuti lavorano, per gli altri mancano le attività e anche la proposta scolastica è insufficiente per tutti”, osserva l’ex deputata radicale Bernardini. “Gli stranieri sono 250 eppure non c’è un mediatore culturale, figura importantissima in una realtà così variegata”.

Rita Bernardini ha trovato un po’ di tutto in quasi sei ore di tour nella casa circondariale. Acqua che gronda dal soffitto dei piani alti - colpa di chi progettò un tetto piatto -, macchie di muffa nei presidi della polizia penitenziaria, bidet rotti nelle celle di transito dove tra l’altro non funzionano le docce. Si chiamano celle di transito perché dovrebbero ospitare i nuovi giunti per poche ore, il tempo di sbrigare la burocrazia nell’ufficio matricola e di assegnarli a una sezione.

Ma nella pratica quotidiana vengono utilizzate per l’isolamento di detenuti indisciplinati e per la collocazione di quelli trasferiti da altri penitenziari. C’è pure un caso di sospetta scabbia e mancano alcuni beni di prima necessità, come la carta igienica o i banali stracci per pulire i pavimenti. Ma l’ong e la camera penale hanno potuto apprezzare anche qualche passo avanti. L’area Thomas Hobbes, distrutta dall’incendio appiccato a marzo da sette maghrebini, è stata rimessa a nuovo e a giorni tornerà in funzione.

La pianta organica dei medici è al completo, anche se mancano gli specialisti e gli infermieri, gli educatori sono quattro su cinque, il personale della polizia penitenziaria è aumentato e nella sezione di trattamento avanzato il clima è sereno: “Lì lavorano tutti, l’impegno in un’attività allenta la frustrazione e scandisce il trascorrere del tempo. Bisogna investire sugli aspetti rieducativi, ricreativi e riabilitativi se si vuole dare un senso alla pena”, osserva il presidente degli avvocati penalisti Genoni.

E poi ci sono i casi che stringono il cuore. Come quello del quarantenne che dopo anni di reclusione era riuscito a ottenere una misura alternativa, che è di fatto la libertà anche se sottoposta a rigide prescrizioni e a regole inderogabili. Era ospite da un cugino. Ma la famiglia è povera, il piatto restava spesso vuoto, opportunità di impiego nessuna. “Pesavo troppo sui miei parenti e non volevo mettermi ancora nei guai. Ho chiamato i carabinieri e mi sono fatto riportare dentro, sconterò la pena qua perché non ho alternative”.