sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 4 luglio 2022

La tensione perpetua tra legge e giustizia, tra morale astratta e diritti concreti è sempre stata al centro delle rappresentazioni hollywoodiane, con tutte le inevitabili semplificazioni e concessioni (al climax narrativo da una parte e alla cultura di massa dall’altra) proprie al filone giudiziario.

Il racconto popolare si nutre infatti di schemi regolari, ripetitivi, è espressione dello spirito dei tempi ma allo stesso tempo lo condiziona, contribuendo a creare e a diffondere valori e pregiudizi. È l’immaginario collettivo, che fornisce il sostrato simbolico all’opinione pubblica, al suo formarsi e al suo continuo mutare (o stagnare): le opere di finzione, cinema, tv, letteratura, teatro, sono in tal senso veicoli formidabili.

Per decenni i legal drama hanno giocato con l’immedesimazione tra lo spettatore e i “coraggiosi giustizieri” che si scagliano contro poteri ordinari e straordinari, Che si tratti di avvocati o procuratori o addirittura poliziotti cambia poco, l’occhio della cinepresa è (quasi) sempre quello dell’accusa, una soggettiva continua di raddrizzatori di torti, che magari si battono con passione per scagionare un innocente, però con l’idea “davighiana” di dover scovare il “colpevole che l’ha fatta franca”.

Nell’ultimo decennio l’avvento delle piattaforme streaming, in particolare Netflix, ha rivoluzionato profondamente questo paesaggio culturale anche grazie al format seriale, più dettagliato e analitico del film classico, che permette di spiegare ai profani la complessità di un’inchiesta e di un processo penale, la fragilità del sistema e la facilità con cui le giurie fanno sbattere in cella gli imputati nel paese più carcerario dell’occidente.

E la figura più rappresentativa di questa evoluzione e quella dell’avvocato, spogliata dei suoi attributi mitologici e irrealistici, da supereroe degli studios, guerriero Marvel in toga, e ricollocata senza epica nella sua funzione ordinaria, quotidiana, imperfetta e per questo così preziosa per la vita democratica. Non c’è più bisogno di essere Perry Mason, o l’Atticus Finch de Il buio oltre la spiepe, o il Frank Galvin de Il Verdetto per interpretare con nobiltà il ruolo del difensore. Non è necessario scoperchiare complotti o far cadere governi per servire lo Stato di diritto con spirito probo.

È uno switch importante per gli Stati Uniti, dove per tradizione i legali non godono di grande fama, al contrario: oltreoceano circolano barzellette di gran cinismo, amenità sarcastiche del tipo: “Come fai a capire se un pedone investito da un tir faceva l’avvocato? Facile: manca il segno della frenata sull’asfalto!”.

Astuti, avidi, spesso senza scrupoli e in odor di zolfo, assimilati fisiologicamente ai propri clienti e ai loro presunti crimini. Gli avvocati dei criminali, degli stupratori, degli assassini, dei mafiosi o sull’altra sponda dei politici corrotti e delle grandi corporation, rappresentati come ingordi affaristi, altro che attori essenziali del diritto. L’unica figura tollerata nella cultura cinematografica Usa era, come dicevamo, l’avvocato-investigatore, la parte civile, che presta soccorso alla vittima di turno, che si tratti di una povera ragazza dei bassifondi che ha subito violenza sessuale a cui nessuno crede o di un povero diavolo truffato da una cinica multinazionale. Con il difensore che si trasfigura in paladino-accusatore e ripara l’ingiustizia anche se inizialmente deve affrontare avversari insormontabili e cattivissimi fino al meccanico colpo di scena in cui il bene trionfa sul male. Nella nouvelle vague giudiziaria delle serie tv questo manicheismo è assente, ma la critica è decisamente più profonda perché non riguarda il tal procuratore, il tal poliziotto, il tal personaggio pubblico, ma il sistema, la sua equità alterata dalle disparità sociali, dai preconcetti razziali, dal populismo penale e dai processi mediatici.

Non parliamo solamente degli “errori giudiziari” in cui i diritti negati sono strettamente connessi al proprio status di “innocente” e l’empatia scorre automatica tra il pubblico. La gran parte delle serie ci porta ormai dentro la macchina giudiziaria, nei suoi meccanismi complessi a volte perversi.

E molto spesso sono tratte da storie vere riadattate dagli sceneggiatori degli studios. Certo, il plot deve essere arricchito dalla fantasia degli autori, da situazioni immaginarie per ovvie esigenze di drammaturgia, si tratta pur sempre di fiction, ma mai come ora abbiamo potuto osservare così da vicino Prendiamo la bellissima For Life, scritta e ideata da Hank Steinberg, prodotta dal rapper 50 Cents che racconta la discesa agli inferi e poi il riscatto di Aaron Wallace, arrestato per spaccio di droga e condannato alla prigione a vita perché non ha voluto patteggiare una pena a vent’anni. In prigione Wallace decide di laurearsi in legge e diventare avvocato. For Life ci mostra i conflitti e le lotte di potere, tra i detenuti e tra chi fa funzionare la macchina infernale della prigionia, l’ottusità vendicativa delle guardie, il cinismo dell’amministrazione, l’iniziativa, spesso interessata e priva di scrupoli della procura. E lo fa senza retorica, senza piagnistei, con un tocco minimalista. Wallace combatte per se stesso, certo, e riuscirà a dimostrare la propria innocenza, ma incarna il ruolo dei difensore con fervore e lucidità: “Sono un avvocato, farei di tutto per i miei clienti!” Già, il diritto avere una difesa e un processo equo, che non significa soltanto disporre di uno svogliato legale d’ufficio, ma di un professionista appassionato capace di lottare contro il moloch giudiziario, di proteggere i suoi clienti dal bullismo dei procuratori.

E sono tanti i tabù che saltano in aria. Come quello delle testimonianze oculari che le giurie d’oltreoceano e gli stessi procuratori hanno sempre santificato, come profezie scolpite nel marmo. La docuserie Innocence file, che illumina le vicende di otto detenuti condannati ingiustamente in seguito a indagini sbrigative, perizie approssimative e processi sommari. Una produzione ispirata al lavoro di The innocence project, organizzazione no profit che ogni anno riesce a far riaprire decine di casi giudiziari. Stando alle cifre ufficiali negli ultimi trent’anni sono circa 2500 le persone condannate ingiustamente che hanno potuto ribaltare la sentenza grazie all’aiuto di queste ong.

A seppellirli in carcere testimoni che si dicono “certi” di averli riconosciuti sulla scena del delitto, o in fuga dal luogo del crimine, oppure aggirandosi sospetti nei dintorni di un omicidio o di una rapina, e d’altra parte chi può dubitare di una vittima che riconosce il volto del suo stesso carnefice?

La psicologia forense e la semplice casistica ci spiegano invece quanto sia illusoria la memoria, anche a pochissime ore di distanza dai fatti, figuriamoci dopo molti mesi, se non anni. C’è poi la componente emotiva che distorce la percezione, dilata i tempi, provoca rimozioni e sostituzioni, offusca il giudizio.

In alcuni casi le serie possono incidere direttamente sui destini di persone in carne e ossa come per Making of a Murderer che ha portato alla scarcerazione di Brendan Dassey, condannato all’ergastolo per omicidio volontario. Le registe hanno messo in luce la manipolazione delle prove da parte della polizia, gli interrogatori illegali, l’ostracismo verso gli avvocati, ma hanno anche ricevuto diverse critiche per l’estrema parzialità del racconto che non approfondisce le responsabilità di Dassey per concentrarsi solamente sui metodi brutali dei suoi accusatori. Uno degli effetti più importanti del processo Dassey è stata la messa in discussione della prova del Dna, vero e proprio dogma per inquirenti, giudici e giurie, dimostrando che la traccia genetica può venire alterata che non può essere affidabile al cento per cento.

La produzione seriale americana è anche lo specchio dei grandi cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio in quella società. Il movimento Black lives matter ha messo a nudo la feroce discriminazione che la comunità afroamericana subisce ogni giorno nei mille ghetti d’America, dai dalle perquisizioni violente, alla detenzione abusiva, alla negazione del diritto di difesa, alle umiliazioni del sistema penitenziario federale. Una ferita che viene da lontano e che richiama alla mente le grandi battaglie peri diritti civili degli anni 60 e 70, In questa prospettiva si muove Processo ai Chicago 7, che racconta come i leader del movimento studentesco, della controcultura giovanile e del black power tra cui Bobby Seal della Pantere nere vennero usati come capro espiatorio per i celebri scontri alla convention democratica del 1968 sullo sfondo della contestazione alla guerra in Vietnam.

Arrestati senza prove, dati in pasto alla gogna pubblica, incastrati da procuratori faziosi e giudici proni al potere alla fine riusciranno a dimostrare la loro innocenza e le manovre politiche che si sono giocate sulla loro pelle. Una serie toccante, che rimanda a fatti avvenuti mezzo secolo fa ma purtroppo ancora attuali, una serie anche figlia dei moti di Ferguson dopo l’uccisione nell’agosto del 2015 del 18enne disarmato Michael Brown da parte di un agente di polizia bianco che innescarono un movimento di massa, capace di far rimettere in discussione i poteri quasi militareschi concessi ai poliziotti e la compiacenza dei tribunali nei confronti dei loro continui abusi.

Giustizia razziale, giustizia di classe, giustizia, politica, giustizia mediatica; conoscere le perversioni del sistema è il metodo più adatto per osservare l’andamento e la rettitudine di una società, e le tante serie tv che ci mostrano le vicende reali di avvocati, procuratori, giudici, imputati, testimoni, poliziotti e giornalisti tutti impegnati a far andare avanti la macchina, ci permettono di guardare da vicino come funziona una democrazia.