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di Mario Fillioley

La Stampa, 14 settembre 2023

Il cambiamento sociale deve partire dai redditi e dal benessere economico. Chiedere i miracoli all’istruzione non è mai stata una strategia efficace. C’è una parte del decreto Caivano che prevede di punire con la detenzione i genitori che non mandano i figli a scuola. Tra i compiti di chi come me insegna alle scuole medie c’è quello di segnalare i ragazzi a rischio abbandono, proprio per prevenire la dispersione scolastica: si monitorano le assenze, se è il caso ci si informa sui possibili motivi, si convocano le famiglie a scuola, si scoprono delle cose.

Si scopre per esempio che uno dei motivi per cui i genitori di un ragazzo in dispersione non si occupano di accompagnare il figlio a scuola è che stanno in galera (bisogna ammettere che come scusa è buona). A volte uno, a volte addirittura tutti e due: la mamma ai domiciliari, il papà proprio in galera. L’idea di punirli con ulteriore galera forse è un po’ ridondante, però ha di buono che è a costo zero: sono già là, non c’è manco bisogno di mandarceli.

In generale, sembra che i ragazzi smettano di andare a scuola per gli stessi motivi per cui smettevano di andarci a metà Novecento: che ci vado a fare? Perdo solo tempo, meglio se mi dò da fare e cerco di contribuire all’economia famigliare, mi guadagno qualcosa coi lavoretti a nero o con qualche lavoretto delinquenziale, oppure rimango semplicemente a casa a non fare nulla, così pure se non guadagno niente dò meno fastidio (nessuno deve accompagnarmi, venirmi a riprendere ecc.) e riduco i costi (libri, quaderni, zainetti, astucci, righelli, autobus, vestiti).

Ora, a scuola tematizziamo tutto, in continuazione, a livello ossessivo: quasi tutti i giorni del calendario scolastico sono occupati da giornate tematiche dedicate agli argomenti più disparati, la violenza sulle donne, il cyberbullismo, la violenza minorile, la lotta alle mafie, la prevenzione dalle dipendenze e dalle droghe, l’ecologia, i libri e la lettura, la memoria, l’autismo, ci sono incontri con la polizia postale e con esperti di ogni genere, e poi giornate trascorse insieme a scrittori, giornalisti, attori, musicisti, imprenditori, influencer.

Tutta questa specie di catechismo funziona? No, e ce ne accorgiamo quando capita qualcosa di eclatante: lo capisco, succede anche a me, guardo un telegiornale, leggo un articolo, mi brucia l’anima, urlo alla mia famiglia: Ma la scuola niente fa? E a quel punto i miei mi rispondono: e che ne sappiamo noi? Diccelo tu: che fate a scuola? Ah, già, penso, è vero, a scuola ci sono io. Che faccio io a scuola? Io più che altro cerco di insegnargli a distinguere tra predicativo del soggetto e predicativo dell’oggetto, penso. E mi sento in colpa. Forse allora “La scuola!”, quando succede qualche patatrac, ce la dobbiamo cominciare a immaginare tutti quanti come un punto di arrivo, e non come un punto di partenza.

Magari è proprio così che fanno all’estero, dove i complementi predicativi li trovano in un attimo: all’incontrario di come facciamo noi qua. Vediamo.

Dove si trovano le scuole migliori? Nel Nord Europa, cioè nei Paesi dove c’è un senso civico sviluppato, c’è (o almeno c’era, c’è stato per tanto tempo) un welfare molto sviluppato, e un tasso di delinquenza piuttosto basso: Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia, Belgio, Austria, Svizzera (ultimamente si delinque di più anche da quelle parti, ma è abbastanza una novità, dice Ocse, al punto che Paesi come per esempio Svezia e Danimarca hanno scoperto solo adesso di non avere nel loro codice penale reati come quello di associazione per delinquere). Perché in quei Paesi si delinque (o quantomeno si delinquiva) poco? Boh, i motivi per cui si delinque sono un mistero dalla notte dei tempi, la teodicea, i beati paoli, ostro mastrosso & calcagnosso, il vaso di Pandora, che ne sappiamo? Al limite possiamo vedere se c’è qualche correlazione con il reddito e Ocse dice che in effetti c’è: dove c’è meno povertà c’è meno delinquenza, vale per gli Stati come per i quartieri.

A voler andare per euristiche, tanto per sapere da dove bisogna partire, forse potremmo dire che se vogliamo una scuola che incida davvero sulla società, eliminandone progressivamente le sacche di ignoranza e di violenza, dobbiamo concentrarci sull’innalzamento del reddito medio. Potremmo anche tenere conto del fatto che c’è stato un periodo in cui lo abbiamo fatto, è già successo, proprio da noi, a casa nostra nel profondo Sud, nemmeno tantissimo tempo fa. La mia città, Siracusa, ha avuto un incremento notevolissimo del grado di istruzione guarda caso in concomitanza con l’arrivo del vituperato polo petrolchimico: tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, i nostri nonni e i nostri genitori passarono dall’essere contadini all’essere operai, fecero cioè un grosso passo in avanti sia come reddito che come stabilità economica, la nostra provincia si riscattò da una miseria atavica (tra i sostenitori del polo petrolchimico in Sicilia c’era Leonardo Sciascia), e Siracusa fece addirittura da richiamo, arrivò manodopera da molte altre province siciliane, vicine e meno vicine.

Conquistato il miglioramento economico, i nostri nonni e genitori mandarono i figli a scuola, a diplomarsi, a laurearsi. Diminuì la microcriminalità e diminuì quella minorile, e il livello medio dell’istruzione aumentò (ci sono le serie Istat che sono così belle che viene voglia di farci un quadretto e tenerselo appeso in classe). Andò così un po’ in tutta Italia: l’innalzarsi del reddito in seguito al boom produsse un innalzarsi dell’istruzione. Meno poveri i genitori, più istruiti i figli, meno delinquentelli e meno violenti in giro, circolo virtuoso.

Chiedere alla scuola di fare da motore immobile, di essere il propulsore del cambiamento sociale, a quanto pare non è una strategia così efficace: la scuola può coadiuvare e potenziare un cambiamento che prima di tutto dev’essere economico, devono cioè migliorare in generale i tassi di occupazione di certe aree del Paese e si devono alzare i redditi bassi, per fare sì che migliorino le condizioni abitative e di vita delle famiglie, e la scuola si trovi per conseguenza a fare principalmente la scuola, cioè a dedicarsi ai suoi due nuclei fondamentali: i complementi predicativi e il miglioramento della capacità di intendere e di volere dei ragazzi.

Dei predicativi si parla sempre troppo poco, sulla capacità di intendere e di volere, invece, uno dei ministri di questo governo ha dichiarato che un ragazzo italiano, a quattordici anni la possiede già: “Possiede già la capacità di intendere e di volere” e dunque è imputabile. Sulla capacità di intendere di un quattordicenne sappiamo pochino, ma su quella dei tredicenni ne sappiamo a pacchi, abbiamo delle vere e proprie evidenze scientifiche: i test Invalsi.

I test Invalsi dicono che, specialmente al Sud Italia (e Caivano è Sud Italia), parecchi studenti hanno difficoltà a comprendere un testo scritto (su quanti siano questi studenti in difficoltà è in corso un dibattito, ma anche stando alle stime più basse siamo intorno al 30%). Se per capacità di intendere si intende quella di capire cosa c’è scritto in un testo, direi che a tredici anni ci sono ancora difficoltà, spesso anche notevoli. Può darsi che a quattordici siano già risolte, il ministro potrebbe avere ragione, in fondo non è sempre durante l’estate che i ragazzi si innamorano dei complementi predicativi?