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di Fabio Gianfilippi*

Il Riformista, 24 febbraio 2024

Le case circondariali si fanno sempre più un “popoloso deserto”, in cui la condivisione forzata degli spazi angusti è dolorosa persino meno dell’assenza di prospettive. Un luogo dove le marginalità si sommano, quando invece dovrebbero essere affrontate. Il tempo in carcere è speso sempre nell’attesa. Innanzitutto della libertà. E poi della telefonata con i familiari, dell’udienza, dell’arrivo del medico specialista, del permesso, dell’autorizzazione a cambiare stanza, della visita dell’avvocato, dell’equipe di trattamento, del colloquio con il magistrato di sorveglianza. Con l’odierno sovraffollamento, nuovamente ai tassi che ci condussero alla condanna della CEDU nel 2013, le attese si fanno estenuanti, perché la fetta di attenzione che si può ricevere si riduce drasticamente, e il carcere si fa sempre più un “popoloso deserto”, in cui la condivisione forzata degli spazi angusti è dolorosa persino meno della persistente assenza di prospettive. Un luogo in cui le marginalità rischiano di sommarsi, quando invece dovrebbero essere affrontate per ridurre i pericoli di recidiva nel reato.

Il numero dei suicidi, ben più delle singole storie spezzate che lo compongono, induce oggi a tornare a porsi con maggior urgenza il tema del ricorso a misure emergenziali in grado di decongestionare, almeno in parte, i nostri penitenziari. Altre aspettative finiscono così per caricare di inquietudini le lunghe notti delle prigioni. L’attesa, anche quella di eventi positivi, persino quella di un insperato indulto o della tanto citata liberazione anticipata speciale, in carcere può tradursi in un cruccio, che è il precipitato della condizione di privazione di libertà, per cui si perde il controllo e la possibilità di scegliere anche nel poco, e si rischia perciò di regredire ad una dimensione infantilizzata.

È questa la quotidianità che si presenta al magistrato di sorveglianza che visita il carcere, nell’esercizio delle funzioni che gli sono affidate dalla legge penitenziaria, sempre in perdita nella inevitabile scelta tra dare precedenza al fascicolo che potrebbe ricondurre qualcuno alla società o andare a verificare quel che sta accadendo dentro le mura. È chiamato alla tutela giurisdizionale dei diritti delle persone detenute e a verificare la costruzione dei percorsi di reinserimento sociale, oggi come ieri. Le fonti, non solo normative, già da tempo avrebbero potuto essere aggiornate e migliorate. Lo sono state poco. La stagione delle riforme ha visto mettere da parte molte importanti soluzioni che gli Stati Generali dell’esecuzione penale, la Commissione Giostra, la Commissione Ruotolo, avevano in vario modo declinato. Non sempre proposte di legge primaria, consapevoli delle difficoltà di trovare soluzioni politicamente condivise, ma anche strade percorribili solo in via amministrativa. Al contrario, la Corte Costituzionale ha, in questi anni, continuato a disvelare un percorso di “inveramento del volto costituzionale della pena” che ancora oggi prosegue, e che ha anche riconsegnato alla magistratura di sorveglianza importanti margini di discrezionalità per consentirle di prendere in considerazione i percorsi individuali delle persone, mettendo nell’angolo le presunzioni ostative assolute.

Le risorse su cui la magistratura di sorveglianza può far conto restano però esigue, non soltanto per i suoi numeri, ma soprattutto per quelli del suo personale amministrativo, e di tutti gli attori dei percorsi di risocializzazione, a partire da quelli intramurari, tra i quali ci si ricorda ogni tanto degli operatori di polizia penitenziaria, ma assai meno degli educatori, degli assistenti sociali, e non parliamo neppure dei mediatori culturali, in un carcere popolato di tanti non italiani. Eppure, nell’attesa di interventi che debbono arrivare, se si ha a cuore la sicurezza collettiva, che passa attraverso i percorsi risocializzanti, c’è sulla scrivania del magistrato di sorveglianza il lavoro di oggi, che riguarda singole persone con la propria storia. Con la chiave da cercare (e non da buttare), alla luce della Costituzione, in ciò che in ciascuno non è soltanto il reato.

Come procedere? Ogni giorno con il senso dell’urgenza, e la frustrazione dell’urgenza, da verbalizzare e condividere con tutti gli altri operatori. E la necessità di valorizzare, doverosamente esaminati i profili di sicurezza che vengono in gioco, i percorsi responsabilizzanti, credibili e individualizzati. Il magistrato di sorveglianza conosce questa sola via, che deve continuamente imboccare. E non ammette attese inerti, perché il carcere utile alla risocializzazione ha i suoi tempi giusti, direbbe Elvio Fassone, e sono quelli che rispettano la dignità delle persone.

*Magistrato di Sorveglianza