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di Riccardo De Vito*

Il Riformista, 24 febbraio 2024

Le statistiche hanno molto da insegnare: il carcere tende a produrre più recidiva rispetto alle pene espiate in forme alternative. Nel carcere sovraffollato, questa inclinazione diventa certezza. Nella prigione rigurgitante di presenze i detenuti possono fare soltanto “il pieno di veleno”, per usare un’efficace espressione di Beppe Battaglia. È possibile cambiare rotta, ridurre i numeri e rendere il carcere un luogo meno violento? La domanda, finché la prigione rimarrà una delle alternative punitive, ha una sola risposta: non solo è possibile, ma doveroso, se aspiriamo a una sicurezza fondata sul rientro in società di persone responsabili. Le strade da imboccare, tuttavia, possono essere diverse. La promessa di nuove carceri è il sentiero politico più remunerativo in termini di consenso, ma non porta da alcuna parte, come ha chiarito su queste pagine Mauro Palma.

Servono, invece, risposte in grado di decongestionare il carcere nell’immediato - la liberazione anticipata speciale, ad esempio -, da coltivare insieme a prospettive che prevengano il ripetersi del fenomeno. Per problemi strutturali servono soluzioni strutturali. Tra queste, si sta facendo spazio nel dibattito pubblico l’opzione del numero chiuso negli istituti penitenziari, suggerita anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Proviamo a capire di cosa si tratta. In prima battuta, una legge, preceduta da adeguata ricognizione, dovrebbe stabilire il limite massimo di presenze per ogni istituto; fissata tale soglia invalicabile, si deve stabilire chi debba entrare in carcere con priorità - gli autori dei reati più gravi e di maggior allarme - e chi, in attesa che si liberino posti in ragione delle fisiologiche scarcerazioni, possa iniziare a espiare in rigorose misure alternative (la detenzione domiciliare, se necessario con mezzi elettronici di controllo).

Vantaggi: il principio di extrema ratio della detenzione carceraria - ricorrere alla prigione solo quando ogni altra misura meno afflittiva è inidonea - assumerebbe una cifra concreta, inducendo a maggior accortezza nell’applicazione delle misure cautelari e nel dosaggio della pena (inutile dire che il sistema è macchiato da eccessi); all’interno delle prigioni vi sarebbe un miglior rapporto tra risorse trattamentali e persone ristrette, con aumento di efficacia dell’azione risocializzante; chi rimane fuori dal carcere non sarebbe libero, ma sottoposto ad articolate misure alternative, sulle quali si potrebbe investire in maniera più proficua che sull’edilizia penitenziaria.

Non bisogna nascondersi la necessità di un salto culturale. Il numero chiuso nelle università e negli ospedali gode, se non del favore, della comprensione del senso comune. L’opinione pubblica può ritenere ragionevole che, per far funzionare meglio istruzione e sanità, vengano creati svantaggi nei confronti di chi rimane fuori: gli studenti meno meritevoli e i pazienti meno urgenti. Con il carcere il discorso cambia; sul terreno della penalità il numero chiuso assume altro sapore: lasciare “fuori” qualcuno viene percepito come un vantaggio indebito per chi merita di stare “dentro”, a qualsiasi costo. Il bivio è proprio qui, nel modo di guardare al carcere. Dobbiamo pensarlo come il luogo della sofferenza nei confronti di chi ha commesso il male, una sorta di territorio segreto di rendimento dei conti, o come l’istituzione pubblica deputata a quel servizio che si chiama risocializzazione e che serve a rendere la comunità più sicura? Se l’alternativa è la seconda - come pare, non fosse altro che per utilità sociale -, allora cadono le differenze tra i servizi pubblici della formazione culturale e professionale, della cura delle malattie e della rieducazione. Le università servono agli studenti, ma nuove generazioni adeguatamente formate arricchiscono la società; l’ospedale cura il paziente e, allo stesso tempo, preserva le relazioni umane; la rieducazione serve al condannato, ma un condannato risocializzato libera la città dal pericolo della recidiva e ricompone la frattura del reato. Un condannato carico di veleno, inoculato in ambienti saturi e promiscui, non serve a niente. Rimane quel pericolo, per gli altri e per sé stesso, che la società s’illude, in tal modo, di neutralizzare.

*Magistrato