sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Cosima Buccoliero*

Il Riformista, 24 febbraio 2024

Quella in cui ci sia sempre una contaminazione, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni. Le persone non decidono così automaticamente di avviare un percorso di cambiamento. Io sono direttrice della Casa Circondariale di Monza, ma la mia esperienza più lunga è stata nel carcere di Bollate, che nel panorama penitenziario non può più considerarsi una sperimentazione, è una realtà che ha dato modo di dimostrare che è possibile “un altro carcere”.

Il carcere che funziona per me è un luogo in cui ci sia sempre questa contaminazione con l’esterno, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni. Uno degli elementi fondamentali sono proprio le relazioni che noi operatori riusciamo a realizzare all’interno del carcere, l’attenzione alle persone che sono detenute. Ed è questa attenzione che fa un po’ la differenza. Si capisce subito quando si entra in un carcere qual è il clima che si respira, proprio perché sono le relazioni positive che poi consentono di far sì che le persone possano decidere di avviare un cambiamento. Noi non possiamo pensare che le persone, solo perché sono rinchiuse, decidano così automaticamente di avviare un percorso di cambiamento. È necessario intanto che con loro si riesca a trovare dei punti di incontro e quindi è fondamentale la cura delle relazioni. Io posso anche riuscire a far accettare alle persone la cultura del lavoro, anche se per esempio non hanno mai svolto delle attività lavorative stabili e non sono capaci di assicurare un impegno costante, ma tutti questi valori passano attraverso il rapporto che si crea con loro.

Ho visto quanto è importante che il carcere sia aperto, nel senso che la comunità esterna ci guardi, entri in carcere e ci faccia rendere conto anche di alcune storture. Per esempio a me è successo che alcuni docenti universitari mi hanno sollecitato a una riflessione su quanto il nostro procedimento disciplinare, che pure è previsto per legge, sia poco garantista, non dia ai detenuti la possibilità di raccontare la propria versione dei fatti. E quindi la comunità è importante perché ci mette di fronte anche a una serie di nostre prassi che giustifichiamo con la solita frase “si è sempre fatto così”, io dico che se si è sempre fatto così si è sempre sbagliato. Ecco, l’occhio della comunità per me è fondamentale perché mi consente di cambiare registro, di rendermi conto di quanto certe prassi siano dannose o comunque non siano giustificate e di modificarle.

Il carcere fa fatica a cambiare, è molto più facile che rimanga fedele a sé stesso, fermo nelle sue convinzioni. Anche se queste convinzioni non sono efficaci. Il modello di Bollate è quello di un istituto dove si cerca la collaborazione con la comunità esterna, che significa fare in modo che non solo gli spazi siano occupati da realtà imprenditoriali esterne, ma anche che l’organizzazione del carcere si pieghi un po’ alle esigenze degli imprenditori, perché uno dei nostri più grandi problemi all’interno degli istituti penitenziari è il fatto che noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione e, cascasse il mondo, non riteniamo di doverla modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno. Invece Bollate mi ha insegnato che questa organizzazione si può cambiare. Qualche giorno fa parlando con il personale di Monza dicevo che, quando per esempio faccio entrare un camion che deve caricare o scaricare la merce, e quindi ho bisogno di un controllo e di una vigilanza, mi assumo il rischio che possa accadere un evento critico, purché l’imprenditore non scappi a causa delle lungaggini e dei ritardi che spesso il carcere impone alle persone che vengono dall’esterno, proprio perché ritengo che soltanto assumendomi questo rischio posso riuscire a realizzare un’organizzazione che metta al centro non solo la persona detenuta ma le sue necessità, e il lavoro in carcere è una di quelle, quindi io spero di fare in modo che gli imprenditori possano pensare che il carcere è davvero un’opportunità. Il carcere di Bollate ha puntato molto sulla partecipazione della comunità esterna e sull’organizzazione di opportunità nel mondo del lavoro, della formazione, anche delle arti, del teatro, della musica, che potessero riempire la vita delle persone detenute, quindi davvero si potesse aiutare ad organizzare la giornata della persona detenuta come una giornata “normale”, come quella -per quanto possibile- che noi viviamo all’esterno.

*Direttrice della Casa Circondariale di Monza