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di Sofia Ciuffoletti*

Il Riformista, 24 febbraio 2024

Ho sempre pensato di vivere in un paese dove le mamme e i bambini sono tra i simboli nazionalpopolari più (fin troppo) intoccabili. É sconfortante riconoscere come dipenda da quali madri e da quali minori. Il carcerario è una prospettiva particolarmente illuminante in questo senso. Le donne in carcere sono poche rispetto agli uomini, sono sempre state poche e questo a livello globale (i dati rivelano una omogeneità che attesta le donne detenute su una percentuale di circa il 6% del totale della popolazione detenuta). Al di là della questione sociologica (perché le donne delinquono così poco? Tamar Pitch invitava a ribaltare la logica e a chiedersi: perché gli uomini delinquono così tanto?), il dato è importante perché rende pressoché incontrovertibile affermare che il carcere è ed è sempre stato una struttura punitiva sessuata e declinata al maschile.

Per questo l’unica prospettiva affrontata dalle politiche pubbliche in tema di detenzione femminile in Italia è stata la maternità, a partire dal legislatore post-unitario e dal legislatore fascista che introduce il rinvio obbligatorio della pena per la donna incinta o madre di prole inferiore a 1 anno e quello facoltativo per la madre di prole tra 1 e 3 anni. Per proseguire con la prospettiva umanitaria della legge Gozzini che introduce la misura alternativa della detenzione domiciliare per donne madri detenute, la famosa legge 8 marzo (l. 40/2001) che introduce la detenzione domiciliare speciale e ancora la l. 61/2011 che inaugura gli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per donne Madri detenute).

E tuttavia, ad oggi, nelle patrie galere vivono e crescono 21 bambini e bambine piccolissimi. I ‘bambini galeotti’, come li ha definiti Luigi Manconi. Il fatto che ancora sia pensabile di recludere per anni dei neonati per correggere le madri è uno dei segni incontrovertibili della persistenza del carcerario nella nostra società punitiva. Non solo, in carcere vivono e portano avanti la gravidanza un numero imprecisato (perché non calcolato nelle statistiche ministeriali) di donne incinte, solo perché in custodia cautelare e non in esecuzione pena. Come dicevamo, infatti, il rinvio “obbligatorio” della pena, previsto dall’art. 146 del codice penale opera unicamente in fase di esecuzione pena. Il paradigma di tutela in questo caso appare completamente invertito: dalla presunzione di innocenza che dovrebbe comportare una condizione di privazione di libertà allineata con il mancato accertamento di responsabilità penale a una condizione di totale deprivazione, spesso protratto per anni, in cui la persona, presunta innocente, non gode delle possibilità insite nel meccanismo premiale dei benefici e delle misure alternative, ma neanche della più basica misura del citato rinvio obbligatorio o facoltativo della pena. Quello che manca drammaticamente e che serve, dunque oggi, è un ripensamento di questo iato di tutela della maternità e dei minori tra le donne in custodia cautelare (per capire le dimensioni del fenomeno basti pensare che a oggi la percentuale di persone detenute in misura cautelare si attesta intorno al 30%).

E tuttavia un disegno di legge annunciato in un comunicato stampa del CDM del 16 novembre dello scorso anno (secondo la strategia del penale simbolico e mediatico), presentando l’ennesimo “Pacchetto sicurezza”, afferma che “al fine di assicurare la certezza dell’esecuzione della pena nei casi di grave pericolo” il governo propone di intaccare il paradigma dell’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e madri di prole di età inferiore a 1 anno, rendendo anche in tali situazioni facoltativo il rinvio.

La protratta incapacità di gestire nel totale rispetto della dignità della persona, dell’obbligo internazionale e vincolante della tutela dei migliori interessi del minore, del principio dell’OMS per cui il neonato deve essere in grado di costruire un sano attaccamento con la madre (da cui il divieto, reiterato dalla Cedu, di separare il bambino dalla madre reclusa) il fenomeno dei bambini galeotti fino ad annullare la stessa possibilità del carcere, significa considerare che i minori e le relative mamme saranno pure tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.

Una strada, normativamente e in termini di risorse, oggi possibile è quella di implementare la possibilità di scontare la misura cautelare o la pena in una casa famiglia protetta, sul territorio, in condizioni di non discriminazione e aprendo anche alla possibilità che la cura e la genitorialità siano davvero paritarie, con la definitiva parificazione della condizione dei padri detenuti (una delle categorie meno protette e più discriminate delle bolge penitenziarie). La nostra cultura e la nostra civiltà giuridica ci impone di lottare perché questa sia la strada da percorrere e per evitare che il carcere sia, per le donne incinte e madri e per bambini e bambine piccolissimi che crescono in galera, “una condizione umana vissuta senza via di scampo”.

*Filosofa del diritto