sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesco Grignetti

La Stampa, 13 giugno 2022

Cartabia ai partiti: evitiamo lo scontro in Aula, ritirate gli emendamenti. E ora, con il flop dei referendum alle spalle, si ricomincia con la riforma della giustizia. Quella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che la Camera ha già votato a larghissima maggioranza e che il Senato due settimane fa aveva messo nel freezer per non turbare troppo i rapporti con la Lega. Il prodotto è da scongelare, ma pronto. E si comincia oggi stesso. Appuntamento in commissione Giustizia alle ore 18 per votare i primi emendamenti. La tabella di marcia è forsennata: in teoria, giovedì mattina la riforma dovrebbe essere legge definitiva dello Stato. Ma come per tutte le cose della giustizia, il condizionale è d’obbligo.

Sono circa 300 gli emendamenti che i senatori della commissione Giustizia inizieranno ad esaminare. L’accordo di maggioranza è che tutte gli emendamenti su cui c’è un parere negativo del governo (parere che sarà depositato in apertura di riunione) saranno bocciati senza appello. C’è stato anche un caldo invito della ministra Marta Cartabia ai partiti di maggioranza a prenderne atto. La speranza è che si giunga a un disarmo bilanciato e che la grande maggioranza di questi emendamenti sia ritirata. Non sarà così con quelli di Italia Viva, però, che annunciano una battaglia di bandiera.

Se si guarda al calendario, si capisce che a questo punto il ministero della Giustizia ha una fretta indiavolata: martedì notte, la commissione dovrà avere votato tutti gli emendamenti; mercoledì si va in Aula. C’è fretta perché con questa legge si regolamentano le elezioni del Consiglio superiore della magistratura, e l’attuale consiliatura scade con l’estate. Se si sforano i tempi, c’è il rischio che si debbano rinviare le elezioni del Csm.

Quanto al merito della riforma, più che sul punto divisivo della riforma elettorale, c’è da notare che su molti altri capitoli i partiti sono d’accordo: sullo stop alle porte girevoli, ad esempio. Oppure sul tetto più rigoroso al numero dei magistrati fuori ruolo che collaborano con la politica o con i ministeri.

Ci sono alcune norme, poi, che se anche non sono passate con il referendum, sono comunque comprese nella riforma. Il voto degli avvocati nei consigli giudiziari territoriali, per dire: esprimeranno anch’essi un giudizio sugli avanzamenti di carriera dei magistrati, ma solo su mandato del proprio ordine. È una piccola grande rivoluzione, che irrita non poco i togati.

Lo stesso si può dire per la separazione delle funzioni. Attualmente sono concessi al magistrato 4 passaggi di funzione, dalla giudicante alla inquirente, e ritorno. Con la riforma Cartabia, sarà ammesso un solo passaggio, entro il decimo anno di carriera. E infine le candidature del magistrato per essere eletti nel plenum del Csm: la riforma prevede candidature a titolo individuale, senza bisogno di firme a sostegno. È considerato un piccolo colpo di piccone al sistema delle correnti organizzate. Il quesito referendario ne era la fotocopia.

Sarà una riforma efficace? Molti giuristi ne parlano male, e la campagna referendaria ha dato anche il modo a molti di un facile tiro al piccione. Del resto, la stessa ministra Cartabia ha detto in Parlamento che questa era “la migliore riforma possibile”. Marcando la voce su quel possibile, intendeva ricordare che questa è la maggioranza con cui s’è dovuta confrontare e che insomma il suo è stato quasi un miracolo di equilibrio per portare a casa un risultato.

Visto il risultato del referendum è sicuro che non si parlerà più di scelte radicali quale il possibile sorteggio per entrare al Csm oppure di responsabilità civile del magistrato. Archiviata e rinviata a tempi migliori anche la proposta di restringere il perimetro per la custodia cautelare. Nella riforma non c’è il minimo accenno. Il referendum non ha sfondato. E la politica era già più che perplessa per le possibili ricadute pratiche, enfatizzate, a volte anche esagerando, da parte dei magistrati.

Infine la riforma della legge Severino. Che ci sia un vulnus, sono tutti d’accordo. Possibile che i sindaci o i governatori possano essere sospesi dall’incarico dopo una condanna in primo grado, qualunque sia la pena o il reato, e invece i parlamentari o i ministri possano decadere solo per sentenze definitive e di una certa severità? La differenza di trattamento salta agli occhi.

Ora, che qualcuno volesse disfarsi con la scusa dei sindaci dell’intera legge Severino, è evidente. Silvio Berlusconi, per dire, impazzisce di rabbia al solo sentirne parlare. Fu dichiarato decaduto da senatore nel 2013 con infamia mondiale, a seguito di una condanna per frode fiscale (venne poi riabilitato). Anche ieri, Berlusconi ha ribadito: “La Severino va affossata”. In effetti i sindaci premono da tempo per una modifica chirurgica. Il Pd ha presentato ddl sia al Senato che alla Camera. Ma finché c’erano i referendum in marcia, il centrodestra ha impedito che queste leggine pro-sindaci facessero il minimo passo. Ora si può scongelare anche questa questione.