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di Luca Muglia*

Avvenire, 17 febbraio 2024

Il contributo della ricerca sul cervello per migliorare la detenzione. Il dibattito sul carcere si alimenta quotidianamente, incontrando chiavi di lettura nuove e diverse, a volte contraddittorie. Risulta evidente come la formazione culturale, ideologica o politica finisca per orientare o condizionare il punto di vista degli osservatori di turno. Si tende, di sovente, a concepire la tutela dei diritti fondamentali (della persona privata della libertà personale) come un movimento di pensiero che si contrappone alle istanze di difesa sociale (dei cittadini e della collettività), o viceversa, giungendo fino alle polarizzazioni più estreme.

In realtà, chi frequenta le carceri italiane sa bene che le esigenze richiamate, entrambe legittime, possono trovare o meno un contemperamento secondo il percorso inframurario che la persona in conflitto con la legge ha effettuato (o non effettuato) durante il periodo di detenzione. È indubbio che la finalità rieducativa primaria dovrebbe essere quella di stimolare e attivare nel condannato un processo di cambiamento, sia pure nel rispetto del principio di legalità ed auto - determinazione. Al di là delle disquisizioni teoriche, infatti, ciò che rileva è il reinserimento nella comunità di una persona che abbia sperimentato reali occasioni di crescita, sottraendosi così alla recidiva e al reclutamento del crimine organizzato.

Le neuroscienze possono aiutarci a comprendere meglio? Esistono oggi strumenti in grado di fornire chiavi di lettura efficaci. Sono ormai diverse le indagini scientifiche che coinvolgono il circuito penitenziario, comprovando le conseguenze nefaste del sovraffollamento, della deprivazione, dell’isolamento prolungato, dell’assenza di cure o dei fattori di contaminazione dell’ambiente (inquinamento, sistema fognario, smaltimento dei rifiuti, presenza di amianto e piombo, schermature alle finestre). La novità di tali ricerche consiste nell’avere dimostrato come gli effetti, oltre ad essere nocivi per la salute dei detenuti e dell’intera comunità penitenziaria, generino deficit cerebrali e comportamentali che compromettono le possibilità di riabilitazione e di recupero della persona.

L’altro settore di sicuro interesse è quello dei “neuroni specchio”, il meccanismo in virtù del quale replichiamo empaticamente nel cervello le emozioni altrui. Si tratta di un sistema di apprendimento per imitazione che all’interno delle carceri può rivestire un ruolo rilevante. Se, infatti, osservare gli altri provare un’emozione (dolore/ gioia) non è una esperienza così diversa dal provare un’emozione in prima persona, è facile intuire cosa accada oggi in Italia nella mente delle persone detenute e degli operatori penitenziari.

Ambienti degradati, impoveriti, grida, manifestazioni di sofferenza o di dolore sono all’ordine del giorno. Per converso, tuttavia, esiste un piano costruttivo rappresentato dalle emozioni positive nella nuova direzione tracciata dalle scoperte neuro-scientifiche che rivitalizza anche il ruolo del linguaggio. Plasticità e plasmabilità del cervello confermano, infatti, che “le parole aiutano a cambiare’: Esiste, in altri termini, una sensibilità neurobiologica dell’individuo che riguarda l’ambiente e le relazioni di cui occorre tenere conto ogni qualvolta si affronta il tema dei luoghi di detenzione o del trattamento penitenziario.

Le scoperte delle neuroscienze, quindi, possono fornire il loro contributo all’umanizzazione del diritto, al rispetto della dignità e all’individualizzazione dei percorsi di riabilitazione, così come previsto dalla Carta costituzionale, dall’Ordinamento penitenziario e dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il che non è poco.

*Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria