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di Glauco Giostra

Il Dubbio, 5 gennaio 2024

Se infilassimo la mano nel sacco contenente tutti i file del confronto politico nel 2023, non ci sarebbe quasi tema che non ne sia stato oggetto: troveremmo persino un file con onanismi dialettici su “il o la Presidente?”. Ma c’è un dibattito che non riusciremmo mai, neppure rovistando accuratamente, a tirar fuori: quello sulla drammatica situazione carceraria.

Beninteso, non sono mancate singole voci, ostinatamente “inarrese” al medioevo penitenziario del nostro Paese, ma l’opinione pubblica le deve aver percepite come espressioni di catastrofismo a buon mercato, se il problema non è nell’agenda di nessun partito. Eppure una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di dieci anni fa ha condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante dei detenuti. Eppure, il Presidente Napolitano ha inviato il suo unico messaggio alle Camere per “porre con la massima determinazione” la “drammatica questione carceraria”, che attiene ai “livelli di civiltà e dignità” del Paese.

Eppure, l’attuale Presidente della Repubblica, nel suo ultimo discorso di insediamento ha ammonito: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Ma si sa, siamo popolo dalla amnesia facile, quando sarebbe impegnativo ricordare. Permane, però, anche la testimonianza dei numeri, che sono argomenti testardi. Solo in quest’ultimo anno: oltre 60000 detenuti; 120% di sovraffollamento; 68 suicidi; più del 20% della popolazione detenuta si è abbandonata a gesti di autolesionismo e più del 40% ha fatto uso di psicofarmaci; erogati quasi 5000 indennizzi per trattamento inumano e degradante; più di 90000 c. d. condannati liberi sospesi.

Una vergogna nazionale. Non si può neppure invocare l’ attenuante, pur debole, di una recrudescenza della criminalità, che avrebbe colto impreparate strutture e organizzazione del sistema penitenziario. Anzi, la prospettiva diacronica smaschera un ingiustificato trend carcerocentrico. Dal 1990 ad oggi il numero degli omicidi è passato da poco più di 3000 a poco più di 300 (un decimo!), mentre la popolazione penitenziaria è passata da 25573 a oltre 60000 (ben più del doppio!).

Davanti alla spietata eloquenza dei numeri, è inutile tornare a spendere le argomentazioni, ormai tediose nella loro insistita ripetitività, a sostegno della necessità costituzionale, convenzionale e civile di un profondo cambiamento della politica penale in generale e dell’esecuzione della pena in particolare: a chi ha il coraggio di ignorare questi numeri non mancherà certo l’ignavia per lasciare inascoltate siffatte considerazioni.

Ma probabilmente non di sola ignavia si tratta, bensì di fruttuoso calcolo politico. Robert Neel Proctor, docente di Storia della scienza nell’Università di Stanford ha coniato il termine agnatologia per denominare la scienza che studia le strategie che i gruppi di potere utilizzano per mantenere e diffondere l’ignoranza della collettività. Ad esempio, ingannandola sull’efficacia di certi placebo normativi.

Così l’insicurezza sociale non è per certa politica un problema da affrontare sul piano culturale, economico, ociale, ma una condizione elettoralmente redditizia da coltivare. È facilissimo fingere di farsi carico dei pericoli e delle paure della gente digrignando i denti della cieca repressione penale, cioè moltiplicando i reati, aumentando le pene, ostentando l’intransigenza punitiva (“deve marcire in galera”). Non importa che ciò sia assolutamente inutile quanto a tutela della sicurezza. È infatti trucco da imbonitori, il racconto secondo cui il consorzio civile vive in sicurezza con i cattivi richiusi e i buoni liberi. A tacer d’altro, salvo che non si voglia punire tutti i reati con l’ergastolo ostativo, i condannati nella società libera debbono fare ritorno. E da come non da quando - ci fanno ritorno dipende la sicurezza sociale. Ed è statisticamente provato che un graduale, monitorato reinserimento sociale del condannato riduce drasticamente l’indice di recidiva. Mentre limitarsi a recludere le persone in quella sorta di stabulari di Stato, quali sono ormai molti nostri penitenziari, significa garantirsi che odieranno la società in cui faranno ritorno e nel cui nome sono state non già giustamente ristrette nella loro libertà, bensì oltraggiate nella loro dignità, costringendole in condizioni indegne di un uomo.

Ma è difficile convincere l’opinione pubblica di questa elementare verità. Almeno sino a quando ci limiteremo a ricordare la funzione costituzionale della pena o ad invocare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È anche colpa nostra, operatori del diritto e dell’informazione, se la gente ascolta soltanto gli interessati allarmismi della politica. Non ci sappiamo far sentire. In questa democrazia emotiva il tema dell’insicurezza, sociale ed economica, monopolizza ogni ragionamento. A queste preoccupazioni è soprattutto necessario dare risposte: dobbiamo parlare dell’alto costo in termini di sicurezza e anche in termini economici di una visione ciecamente carcerocentrica della pena.

Ma dobbiamo anche riuscire a interpellare la politica, incalzandola con domande che sarebbero ineludibili in una democrazia matura. A cominciare da due interrogativi di fondo. Alcune forze attualmente all’opposizione nella scorsa legislatura avevano saputo proporre l’unico approccio credibile per affrontare un problema tanto complesso come quello penitenziario, promuovendo gli Stati generali dell’esecuzione penale per poi abbandonarne politicamente i copiosi risultati, abbacinate da deprimenti calcoli elettorali: si riconoscono ancora in quell’approccio al problema o restano abbarbicate al dubbio di morettiana memoria “ma mi rende elettoralmente di più se difendo le mie proposte o se ne prendo le distanze?”. Quanto alla maggioranza: pensa di continuare ad impegnarsi nel compito molto arduo, ma sinora alla sua portata, di riuscire a peggiorare l’attuale situazione, non solo con la sua imbarazzante incontinenza panpenalistica, ma anche modificando l’art. 27 Cost. (per tarpare le ali alla funzione rieducativa della pena), abolendo il reato di tortura e introducendo il reato di ribellione carceraria?