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di Mauro Palma*

Il Manifesto, 29 dicembre 2023

Troppo spesso una terminologia escludente, tendente a confinare le vite difficili in un altrove che non interessa, ha coinvolto anche persone con un ruolo istituzionale. È la benda che copre gli occhi della figura femminile rappresentata nel quadro a far riconoscere a Joseph K. del “Processo” di Kafka la Giustizia nella sua immagine classica. Il signor K. è nello studio del pittore - un tal Titorelli - che ritrae i giudici e alle spalle di uno di essi è ritratta la Giustizia bendata quale metafora dell’oggettività e dell’indipendenza del suo esercizio. Ma qualcosa inquieta il personaggio perché la benda trasmette anche l’idea del suo essere cieca e, dunque, può indicare la casualità nel suo giudicare e l’assenza di quello sguardo acuto che occorrerebbe per discernere e dirimere i conflitti.

L’immagine della giustizia bendata, più volte interpretata sul piano iconografico, mi è tornata alla mente in questi giorni che invitano a un bilancio sotto più aspetti. Il bilancio di un anno che si conclude, quello del mio mandato quale figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà, che giunge al termine dopo quasi otto anni e anche quello di una Costituzione repubblicana che ha celebrato i suoi settantacinque anni. Bilanci diversi, ma ciascuno con una sua centralità quando ci si rivolge agli anfratti di minore visibilità nella complessità sociale, che sono al contempo però di grande rilevanza per le soggettività coinvolte e per la costruzione culturale proprio di tale complessità.

La privazione della libertà nelle sue diverse forme e nelle diverse motivazioni che possono aver condotto a essa è uno di questi anfratti da cui osservare il resto, perché in essa si giocano l’effettività di quanto sancito dalla nostra Carta e la capacità di farla vivere nella concretezza delle situazioni difficili.

Non è un bilancio positivo innanzitutto dal punto di vista del linguaggio: troppo spesso una terminologia escludente, tendente a confinare le vite difficili in un altrove che non interessa, al di là di muri e cancelli, e a relegare nell’incapacitazione soggettiva e nell’invisibilità la realtà di coloro che si ritengono non recuperabili alla normalità sociale, ha coinvolto anche persone con un ruolo istituzionale. Da qui, il relegare progressivo all’idea di utopia fallita i processi di integrazione di anni anche recenti, a partire dalle persone con disagio psichico, e il ritenere non praticabili forme di solidarietà effettiva - così come del resto richiamata dalla Carta - verso coloro che giungono nel nostro Paese, dopo l’abbandono, sempre difficile, dei luoghi della propria origine. Ma, soprattutto, da qui il linguaggio crudo e definitivo nei confronti di coloro che la privazione della libertà, il castigo, “se li sono meritati” perché autori di reato.

Il carcere è il luogo del rimosso sociale, prima ancora di essere un test per valutare la capacità amministrativa di declinare in modo costituzionalmente orientato la finalità per le pene. Lo è stato particolarmente nell’ultimo anno che ha visto un ritmo di crescita delle persone detenute di circa 400 al mese e che rischia di far entrare in conflitto con quella prima parte del sempre citato comma dell’articolo 27 della Costituzione che, ancor prima di dare indicazione tendenziale a ogni pena, chiarisce che essa non possa mai essere “contraria al senso di umanità”.

Indicazione netta, questa, che contrasta con i numeri del sovraffollamento, persino superiori a quelli citati dall’ottimo presidente di Antigone ieri su queste pagine, perché le 60.045 persone detenute oggi sono ristrette in 47.334 posti regolamentari realmente disponibili. E indicazione che contrasta con quello sguardo non bendato che la Giustizia dovrebbe avere: perché le 1.460 persone che sono in carcere per scontare una pena inferiore a un anno - non un residuo di una pena maggiore - e anche le altre 2.893 che vi sono per una pena tra uno e due anni, la interrogano urgentemente. Non pongono interrogativi solo all’esercizio di giustizia, ma anche al suo significato profondo, a quello che le attribuisce una collettività che non è riuscita a trovare altre forme di riduzione del rischio di esposizione alla commissione di reati per vite difficili, segnate dalla fragilità sociale, dalla difficoltà di comprensione, dall’assenza di strumenti per accedere a quanto l’ordinamento prevede come alternativa per pene di tale entità. Sono l’immagine di una povertà non vista, forse perché bendati dal desiderio di non vedere.

Il bilancio è dunque difficile: per l’anno che si conclude, per l’effettività del dettato costituzionale spesso aggredita dalla ricerca di consenso attraverso la gestione delle paure. Per la stessa Autorità di garanzia che, proprio perché è riuscita a costruire in questi anni uno sguardo istituzionale, riconosciuto e indipendente, rivolto all’intrinseca vulnerabilità dei diritti di chi è privato della libertà, deve registrare però la progressiva estensione del ricorso alla penalità, quale strumento prioritario per affrontare difficoltà sociali - finanche la dispersione scolastica.

All’avvio del mio mandato come Garante nazionale, nel febbraio 2016, l’area d’intervento penale, tra detenzione in carcere e misure alternative, coinvolgeva circa 98mila persone; attualmente ne coinvolge 145mila perché all’aumento del ricorso a misure alternative alla detenzione e perfino alle recentissime pene sostitutive, non ha corrisposto una riduzione dei numeri del carcere. I due ambiti, cresciuti in parallelo, indicano che occorre aprire una discussione più ampia sui limiti dell’esercizio della penalità e sul sempre necessario impegno perché quella benda non indichi mai cecità.

*Ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti