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di Alberto Riccadonna

vocetempo.it, 26 ottobre 2023

Quante volte la scuola ha fallito proprio con i ragazzi che avevano più bisogno? L’interrogativo incombe sull’importante libro “E-mail a una professoressa” (ed. Effatà) che il frate francescano Beppe Giunti e la giornalista Marina Lomunno, coordinatrice redazionale del nostro settimanale “La Voce e Il Tempo”, stanno portando in questi giorni nelle librerie.

Immenso è il potere che la scuola esercita, nel bene e nel male, sui ragazzi più fragili e indifesi, su quelli che non hanno famiglie alle spalle oppure hanno famiglie difficili e incapaci di accompagnarli nello studio. Nel bene, la scuola può compiere il miracolo di far sbocciare questi ragazzi e portarli oltre ai loro limiti, perché diventino adulti. Nel male, può decidere di rassegnarsi alla loro incapacità e lasciarli indietro, arrendersi, condannarli a un destino di emarginazione che sarà sempre più grave.

L’Italia ha schiere di insegnanti appassionati, ma non sono tutti. Ha eccellenti programmi didattici, ma la piena inclusione non esiste. L’esperienza di una cattiva scuola - incapace di accompagnare i ragazzi “difficili” - torna purtroppo spesso nelle parole dei carcerati, quando raccontano il giorno in cui decisero di diventare “fuorilegge”. Quasi tutti imboccarono la via della illegalità quando erano ancora giovani, giovanissimi. Scelsero il male perché avevano cattive amicizie o addirittura perché seguivano l’esempio di genitori delinquenti, mamma e papà che entravano e uscivano dal carcere. Frequentavano la scuola dell’obbligo - 8 anni di interminabili lezioni - ma nessuno riuscì nell’impresa di salvarli. Nessuno li convinse a scommettere sulle proprie capacità.

Quante volte la scuola ha fallito proprio con i ragazzi che avevano più bisogno? L’interrogativo incombe sull’importante libro “E-mail a una professoressa” (ed. Effatà) che il frate francescano Beppe Giunti, impegnato con i detenuti del carcere di Alessandria, e la giornalista Marina Lomunno, coordinatrice redazionale del nostro settimanale “La Voce e Il Tempo”, stanno portando in questi giorni nelle librerie. È un libro molto bello, breve, ma fulminante: un centinaio di pagine con la raccolta delle lettere di carcerati che hanno scoperto l’importanza della scuola soltanto in età adulta, nella sofferenza del carcere; oggi questi detenuti rimpiangono di aver mancato l’appuntamento con la “buona scuola” quando erano più giovani e la loro esistenza avrebbe potuto prendere una piega diversa.

Lomunno e Giunti hanno raccolto le lettere dei “collaboratori di giustizia”, i cosiddetti “pentiti”, che dietro le sbarre hanno scelto di cambiare vita e collaborano con la magistratura per smascherare le organizzazioni criminali. Il sottotitolo del libro dichiara la convinzione di fondo: che “la scuola può battere le mafie”. Se la criminalità si alimenta nell’ignoranza, la scuola serve proprio a sconfiggere l’ignoranza. Se la camorra vive nel silenzio, a scuola si imparano le parole.

“Cara scuola - scrive Peppino, detenuto in uno dei 189 penitenziari italiani - tanto tempo fa, quando mi hai conosciuto, tu hai fatto ben poco perché io continuassi a frequentarti; potevi lottare perché io non ti lasciassi; invece mi hai abbandonato al mio destino, senza fare ciò che dovevi”. È l’esperienza di tanti ragazzi “difficili”, che gli insegnanti faticano a gestire: prendono brutti voti, finiscono ai margini della classe e quasi naturalmente diventano indisciplinati, finché la scuola li lascia indietro. Non succede a tutti e non tutti diventano delinquenti, ma è certo che tutti quelli che vengono tagliati fuori in qualche modo si perdono.

“Cara professoressa - scrive Giuseppe, un altro collaboratore di giustizia - degli alunni non si deve vedere solo il male, ma anche il bene. Io avevo dodici anni quando a scuola ho portato il primo coltello, e l’ho adoperato. Era la scuola della malavita che mi stava insegnando, tu invece mi sgridavi per i compiti non finiti o perché guardavo fuori dalla finestra mentre tu insegnavi. Cara la mia professoressa, a scuola non si deve abbandonare il più debole al suo destino di sospensioni e bocciature. Gli alunni si vanno a prendere a uno a uno, specialmente si vanno a cercare quelli che non vogliono studiare…”.

“E-mail a una professoressa”. Il titolo richiama la celebre “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani, il prete della scuola di Barbiana. Lo slogan di don Milani, “I care” (mi importa della tua vita, ti voglio bene), è un manifesto che non ha mai perso di attualità. Nel mondo del carcere la scuola che viene offerta di nuovo agli adulti durante il periodo di detenzione (perché arrivino alla Terza Media o al Diploma Superiore, o alla Laurea addirittura) può essere la chiave di volta. Questa intuizione, l’accostamento fra il recupero dei carcerati e l’educazione dei ragazzi di don Milani, è la bella ispirazione del libro di Lomunno e Giunti: mi importa della tua vita - dovrebbero gridare tutte le scuole - anche quando sembri perduto e dimenticato da tutti; mi importa anche quando la tua vita è stata rovinata dalle tue stesse colpe; mi importa di te e spenderò ogni mia forza per aiutarti a ripartire, cominciando proprio dall’insegnamento, dalla cultura.

Da anni Marina Lomunno scrive di questi temi sul nostro giornale, che dedica al mondo del carcere una rubrica quasi tutte le settimane. Il lavoro di Marina alle cronache ed anche questo suo nuovo libro (dopo il primo dedicato ai ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti, con il cappellano don Domenico Ricca) nasce dall’esperienza di volontariato nel penitenziario torinese delle Vallette e in quello minorile, dove san Giovanni Bosco, nell’Ottocento, ebbe l’idea di inventare l’oratorio proprio perché non si dava pace di fronte ai ragazzi incarcerati. Quelli di don Bosco erano i giovani più poveri ed emarginati: avevano l’unica colpa di non aver mai incontrato un adulto significativo, un educatore, un vero insegnante.

Torino è una città pilota a livello nazionale sul fronte dell’istruzione offerta ai carcerati nei luoghi di detenzione. Come spiega nella prefazione del libro Maria Teresa Pichetto, fondatrice del Polo universitario presso il penitenziario della Vallette, dal 1998 l’Università degli Studi tiene in carcere corsi regolari di Giurisprudenza e Scienze politiche, accompagnando alla laurea un numero crescente di “ristretti”, come vengono anche definite le persone private della libertà personale. Fra i risultati di questa straordinaria operazione culturale, al di là del conferimento delle lauree, c’è la completa riabilitazione dei carcerati: secondo le statistiche, al termine della pena i detenuti laureati tornano a vivere nella società civile senza più ricadere nel crimine. Fra questi “privilegiati” non si registrano casi di recidiva ed è un risultato eccezionale, se si considera che la popolazione carceraria, normalmente, entra ed esce dai penitenziari molte volte con tassi di recidiva molto elevati.

L’art. 27 della Costituzione chiede che la pena carceraria venga eseguita puntando “alla rieducazione del condannato”. La riflessione sulla funzione rieducativa del carcere e sul ruolo della scuola nella prevenzione dell’illegalità è condotta nel libro anche attraverso un intervento di Elena Lombardi Vallauri, direttrice del carcere di Torino, e attraverso una intervista al magistrato Ennio Tomaselli, che in vari saggi e romanzi si è occupato di tematiche giovanili. Anche secondo Tomaselli, già procuratore presso il Tribunale dei minori, la scuola è un decisivo antidoto al disagio e all’emarginazione dei giovani segnati da famiglie diseducative e da abbandoni scolastici. Tomaselli sottolinea l’importanza del fattore umano, perché la cultura non deve essere solo sapere scolastico e impartire nozioni, ma, attraverso insegnanti empatici che lascino un segno, deve essere “educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva”.

L’esperienza della scuola in carcere è documentata dalla bella testimonianza di Roberto Gramola, ex detenuto che oggi collabora con la Caritas di Torino e scrive sul nostro giornale. Gramola proviene da una lunga detenzione, nella quale si è diplomato alle scuole superiori e si è poi laureato. È stata la sua salvezza.