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di Rita Bernardini

La Stampa, 14 agosto 2023

È stato un suicidio al rallentatore quello di Susan John. Diciotto giorni senza toccare cibo e acqua. Un modo dignitoso di chiedere ascolto da parte di una donna che si professava innocente e che aveva dovuto lasciare a casa un bambino piccolo, suo figlio. Mentre la sua vita si spegneva minuto dopo minuto, nessuno - fuori - ha saputo niente, né i garanti, né il mondo dell’informazione. Se lo avessero saputo, i garanti locali e nazionale, sarebbero potuti intervenire tempestivamente per comprendere le ragioni profonde del gesto estremo della donna instaurando con lei un dialogo. Niente, solo silenzio.

Susan aveva l’aggravante di essere una straniera, una nigeriana. Non sappiamo se sia stato avvisato il magistrato di sorveglianza che, per legge, ha la responsabilità del trattamento che ricevono in carcere i detenuti, così come non sappiamo del supporto che la donna abbia potuto ricevere da educatori, psicologi, psichiatri, medici. Di questi ultimi sappiamo che le abbiano proposto di ricoverarsi in ospedale e che lei abbia rifiutato, il che appare logico nella psicologia di una persona disperata non certo per le sue condizioni di salute ma per le ragioni che l’hanno portata in carcere lontana dal suo bambino. Mi chiedo cosa siamo diventati - tutti - se ciò possa accadere nel 2023 a una persona affidata nelle mani dello Stato il quale, secondo Costituzione, avrebbe dovuto trattarla con senso di umanità disegnando per lei, come per tutti gli altri detenuti, un percorso di risocializzazione finalizzato al futuro reinserimento nella società.

Dell’altra donna, che a distanza di poche ore dalla morte di Susan si è tolta la vita impiccandosi, sappiamo che si chiamava Azzurra Campari e che era appena stata trasferita nel carcere di Torino provenendo da Genova. Ma ce ne è una terza di donna che l’ha fatta finita nel carcere di Torino: è accaduto il 29 giugno scorso quando Graziana Orlarey si è impiccata a una manciata di giorni dalla sua scarcerazione per paura di ciò che l’avrebbe aspettata fuori.

Questi tre suicidi rappresentano plasticamente quale sia lo stato delle carceri italiane: sovraffollamento, carenza di personale, scarsa assistenza sanitaria, detenzione all’insegna della mera punizione anziché di un percorso di risocializzazione in previsione del futuro reinserimento nella società. La realtà è che le misure alternative sono un miraggio e che il carcere non è l’extrema ratio. La popolazione detenuta è notevolmente cambiata negli ultimi anni. Spesso quando varchiamo la soglia di un istituto, ci sembra di entrare in un manicomio, in un lazzaretto. Sto preparando il report della visita che abbiamo fatto a Bergamo e leggo fra i miei appunti che su 550 reclusi 300 sono i consumatori problematici di sostanze stupefacenti e che il 60% di loro ha serie questioni di natura psichiatrica. Il problema è che “fuori” non ci sono comunità adeguate (sia per numero che per qualità) a seguirli e, quindi, pur avendone diritto per legge, queste persone continuano a rimanere in carcere dove non ricevono alcun sostegno se non quello farmacologico. Stanno entrando in carcere molti giovani fra i 18 e i 25 anni: è un fenomeno allarmante che dovrebbe allertare tutta la classe politica per correre ai ripari. A San Vittore, a Milano, ce ne sono più di 200 di questi giovani la cui dipendenza da sostanze non è mai stata intercettata dai servizi sanitari sul territorio.