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di Mariella Parmendola

La Repubblica, 22 aprile 2024

“Il carcere va sempre peggio perché i detenuti non votano. Nessun governo è stato veramente attento nei decenni perché non porta consensi. Questo di oggi, però, fa del marcire in galera il suo mantra e poi la pentola a pressione esplode”. È una questione politica quella della situazione carceraria in Italia. Lo dice Daria Bignardi che alla “Repubblica delle Idee” presenta un racconto lungo 30 anni sulle carceri e le storie dei detenuti. “Liberato dopo essere rimasto in una rete impigliato a lungo”, racconta la giornalista nel Teatro di Corte di Palazzo Reale a Napoli.

La scrittrice Valeria Parrella in mattinata ha tenuto il filo di una conversazione a tre. L’occasione è la presentazione del libro “Ogni prigione è un’isola” (edito da Mondadori) a firma della Bignardi. “Non è vero come dicono molti che il carcere non ci riguarda e basta non commettere reati per non entrarci. Prima di tutto perché in cella ci sono tanti innocenti. Poi in quanto attiene al nostro sistema Paese, come la scuola e gli ospedali”, sottolinea la giornalista che ha al suo fianco sul palco Lucia Castellano.

“Lei - sottolinea Bignardi - fa parte del meglio che si incontra nel mondo delle carceri”. Per la provveditrice “basterebbe applicare la Costituzione e le leggi per risolvere, ad esempio, il problema del sovraffollamento. Al di là delle volontà dei governi. Sono 8 mila i detenuti che scontano l’ultimo anno di reclusione in carcere, che potrebbero farlo applicando altre misure”.

Sul palco della Repubblica si affronta il tema della condizione umana di chi è in cella. “Daria ci fa entrare nel carcere che è come vivere in un’isola”, dice Lucia Castellano parlando del libro della giornalista. E di quello che accade quando arriva l’estate, “ogni volta che arriva il caldo io penso ai 7400 detenuti della Campania. Si soffoca. Quello della Bignardi è un viaggio nel sentimento di essere reclusi”, racconta.

Poi Lucia Castellano offre uno spaccato senza sconti sulle contraddizioni del sistema penitenziario italiano che rappresenta. “Io sono a capo di una comunità che ogni giorno contraddice il motivo per cui esiste. Il senso di angoscia delle poliziotte di Pozzuoli è quello delle detenute. C’è un sovrappiù che subiscono tutti. Ci si salva restando uomini. Si può uscire non peggiorati. Come dice Daria la salvezza sta nella relazione. Un rapporto di fiducia che non si può tradire aiuta, anche quando si basa su una funzione che poi diventa verità”. Il tema della giustizia riparatrice è oggi quanto mai attuale.

“Il nostro personale dovrebbe essere formato tenendo conto che è una professione che si base sulla relazione. Lo sforzo mio è stato sempre stato trovare anche l’umanità, che non significa provare pena. Vorrei creare un ambiente dove le relazioni possono essere vere, da cui non ci si debba difendere. Non dovrebbe esserci una cappa. I detenuti pensano al male che fanno. Quando si uccide non si dorme. Se a questo sommi il male delle istituzioni non ne esci più. Diventa un gioco di forza”, riflette sulle conseguenze della attuale situazione la provveditrice.

Bignardi, invece, confessa di avere avuto per il tema delle carceri un’attrazione sin dall’infanzia. “Un mondo impossibile. Da 30 anni è come se mi avesse chiamato. In quanto è l’essenza della vita, solo è più illuminato”, dice. Finché come sottolinea Valeria Parrella non ha vinto la resistenza a scriverne, raccontando anche incontri ed esperienze personali. “In carcere mia figlia ha imparato a gattonare. Aveva tre mesi quando abbiamo cominciato a portarla ai colloqui con il nonno Adriano Sofri”, ripercorre il nastro dei ricordi Bignardi.

Ma non è il solo episodio che la tira direttamente in causa, a cominciare da quando era bambina. “Un giorno ho trovato un indirizzo di un condannato a morte a cui ho cominciato a scrivere negli Stati Uniti. E abbiamo continuato a tenerci in contatto per 10 anni, finché non è morto. Ho messo nel libro tutti gli incontri che erano rimasti impigliati”, dice la scrittrice.

Anche i più difficili da dovere raccontare, come “la storia di Marcello Miringelli che conosce Sartre dopo essere scappato dalla madre. Lei che gli faceva elettro choc perché era un ribelle e poi entra nelle Br”. È una tra le tante figure che prendono corpo nel suo racconto. Con un focus sulla condizione femminile, perché è Valeria Parrella a sottolineare “le detenute soffrono di più, anche per la maternità negata”. Che ha anche lei in questo caso un ricordo personale: “Ho incontrato una detenuta che aveva avuto un bimbo prematuro ma non poteva seguirlo come invece ho potuto fare io. C’è una differenza di genere in questa condizione”. “Le donne sono il 4 per cento della popolazione carceraria. E soffrono molto di più. A Pozzuoli in tante piangono, i maschi non lo fanno. Gli uomini fuori hanno qualcuno una mamma, una moglie che si prende cura di loro. Le donne sono abbandonate. Insopportabile non riuscire a vedere i loro figli”, è d’accordo la Bignardi. Che invita ad occuparsi di carceri e detenuti, “ho provato a utilizzare nel libro un linguaggio semplice, non greve, per raggiungere tutti. C’è chi mi ha detto che assomiglia ad un giallo. È stato il migliore complimento. Ho provato così ad avvicinare a questo mondo anche chi ha solo voglia di leggere o la pensa diversamente da me”. E guardando all’affollata platea che l’ha seguita a Napoli di domenica mattina c’è riuscita.