di Fabrizio Rippa e Guido Trombetti
Il Mattino, 13 agosto 2024
Una celebre espressione di Voltaire - mai abbastanza ripetuta - ci ricorda che il “grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Verissimo. Ovviamente un carcere non può essere una SPA. E quindi, come ci ha ricordato tempo fa con lucido realismo Tullio Padovani - maestro di diritto penale - “la condizione dei detenuti deve rappresentare ciò che di peggio una società può offrire in un contesto dato”.
Ma anche al peggio c’è un limite. Se si sommano le due espressioni, possiamo farci un’idea abbastanza desolante di quale sia il grado di civiltà della nostra nazione, le cui carceri secondo i più recenti dati, sono le più sovraffollate dell’Unione. Nel solo periodo sinora trascorso del 2024 - siamo solo ad agosto - si sono verificati 64 suicidi, la maggior parte dei quali di detenuti in attesa di giudizio. Per non parlare della situazione mortificante nella quale si svolge la vita (se è ancora lecito definirla tale) carceraria nella maggior parte degli istituti penitenziari. Una situazione “indecorosa”, l’ha definita il presidente Mattarella.
Ora, che le sanzioni detentive - come ogni forma di reazione alla commissione di reati - debbano comportare una pena, è intuitivo capirlo. Decisamente contro-intuitivo è comprendere e far comprendere la misura necessaria di tale afflizione. Abbiamo scritto pochi giorni fa su queste colonne “Il carcere ha una doppia funzione. Punitiva e correttiva”.
E la prima deve essere funzionale e subordinata alla seconda. Si può sostenere che la detenzione ha un suo valore intrinseco come strumento per far scontare una colpa separato dalla finalità di recupero? Se qualcuno lo pensasse non avrebbe il coraggio di affermarlo. “Le pene, ammonisce la Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (e tanto più le detenzioni cautelari). Il ricorso al carcere è purtroppo una necessità, ma ogni sforzo deve essere fatto per limitarlo” scrive Bruti Liberati.
In realtà la situazione italiana è prossima al collasso. Difficile aprire il cuore alla speranza. E non ci neghiamo che esistono correnti di pensiero che ritengono una chimera la funzione rieducativa della pena. Ma anche esse almeno pretendono che la stessa non sia “illegale”, non si trasformi in una “tortura”, una miope vendetta di Stato, come scriveva Bruti Liberati.
Tutto ciò per effetto di una inerzia pluridecennale che rappresenta una vergogna per un Paese che a pieno titolo si vanta di essere la culla del diritto.
In un bellissimo passaggio nel libro V13 Carrére afferma che” fare l’avvocato è proprio questo: fare tutto il possibile perché l’imputato sia processato sulla base del diritto e non delle passioni e poi quando tutti gli hanno voltato le spalle, essere l’ultimo a tendere ancora la mano”. In questa frase c’è il senso ultimo del nostro modo di intendere il rapporto tra reati compiuti e pena inflitta. Al centro deve restare sempre l’essere umano. E ancora Carrére ricorda che Dostoevskij descrive da par suo quando, condannato a morte e portato davanti al plotone di esecuzione, arrivò la lettera dello zar con la concessione della grazia. “Il particolare sublime è che per caso o per sadismo, l’emissario incaricato di leggere la lettera di grazia era un generale balbuziente….” Ciò vuole soltanto essere un modo per descrivere la temperie nella quale vive chi è sottoposto ad un regime di carcerazione.
Il Parlamento ha appena dato il via libera al cosiddetto “Decreto carceri”, provvedimento emergenziale assunto dal Governo per organizzare una prima risposta all’Europa che ci ha più volte richiamato. Una risposta sicuramente imperfetta. Criticabile per alcuni aspetti di merito e di procedura. Eppure ci sono motivi che spingono a guardare complessivamente positiva tale determinazione, che certamente non sarà la soluzione di tutti i problemi inerenti le carceri italiane - ne è anzi ben lontana - ma almeno rompe un lungo periodo di inazione che sconfinava nell’indifferenza. Culturalmente, è un segnale incoraggiante. Si poteva far meglio? Certamente tutto è perfettibile. Ma almeno qualcosa si è mosso. Intanto saranno assunti 1000 agenti in due anni (i problemi organizzativi non consentivano tempi immediati di immissione in organico). Saranno assunti ulteriori medici. Sarà aumentato il numero delle telefonate che i detenuti potranno fare. Sei al mese. Non sono sufficienti? Ma almeno sono più di prima.
Il decreto prevede anche maggiori possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in una comunità. Sarà anche realizzato un elenco di strutture abilitate all’accoglienza e al recupero dei soggetti coinvolti. E prevede anche la semplificazione dei meccanismi per la concessione degli arresti domiciliari nel caso di detenuti ultrasettantenni o con problemi di salute. Ma, forse l’elemento di maggiore importanza, è stato quello di prevedere un commissario per l’edilizia penitenziaria. Scrive Emilio Dolcini: “I tassi di recidiva si abbassano se la pena viene scontata in un carcere ‘aperto e umano’ (prototipo, quello milanese di Bollate)”. L’obiettivo deve essere di avere tutte le carceri sul modello di Bollate. Dove ha scontato parte della pena Rosa Bazzi (strage di Erba) che di giorno lavora presso una comunità e la sera rientra in carcere a dormire. Probabilmente fosse stata a Poggioreale o a Regina Coeli non sarebbe mai arrivata a godere di tali benefici. Insomma, bisogna avere il coraggio di credere nella possibilità e nell’utilità sociale del recupero. Che passa anche attraverso la qualità della vita materiale.