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di Alessandro Capriccioli*

Il Dubbio, 5 luglio 2022

L’esigenza di mettere in campo una riforma del sistema penitenziario è assente dall’agenda politica. Quando si dice che un fenomeno è “allarmante” si presuppone, per logica, che qualcuno si allarmi, e che quindi si dia da fare per risolverlo.

Se però lo stesso fenomeno viene definito allarmante per cinque, dieci, vent’anni di seguito senza che nessuno si prenda la briga di affrontarlo significa che, a dispetto dell’aggettivo con cui lo si definisce, quel fenomeno è tutto fuorché “allarmante”.

Prendiamo il carcere. Definire “allarmante” la relazione annuale presentata qualche giorno fa dal Garante dei detenuti Mauro Palma, da cui emergono gli stessi dati critici che come Radicali Italiani denunciamo ormai da decenni, è poco più di una formula di stile. La realtà è che il sovraffollamento carcerario, l’enorme numero di persone detenute in attesa di giudizio, l’elevatissimo tasso di suicidi, la presenza costante di bambini sotto i 3 anni costretti a vivere reclusi, le strutture inadeguate e fatiscenti, la mancanza di personale e di attività trattamentali non allarmano quasi nessuno, tant’è che negli ultimi anni nessuno ha messo in campo riforme strutturali.

La sensazione è che quell’aggettivo, “allarmante”, esaurisca in sé tutta la (poca) preoccupazione che questo Paese è capace di provare per le condizioni dei suoi istituti penitenziari; e che per la maggior parte dei soggetti interessati, a partire dai rappresentanti delle Istituzioni, il compito si risolva nell’apposizione di quell’aggettivo, al punto che esso finisce per diventare quasi un alibi: abbiamo detto che la situazione è allarmante, che altro volete che facciamo?

Va da sé che l’allarme, quello vero, dovrebbe esistere sul serio. Perché chi frequenta le nostre carceri, ad esempio svolgendo il proprio mandato ispettivo come nel mio caso, ha chiarissimo il fatto che le loro condizioni, oltre a violare la dignità e i diritti delle persone, vanificano ogni speranza di “rieducazione”, o per meglio dire di reinserimento sociale di chi le abita.

Eppure, quelle condizioni sono là, immutabili nel tempo, così come immutabile è il fallimento di quei luoghi, testimoniato dagli spaventosi dati sulla recidiva, ossia sul numero di persone che tornano a delinquere dopo aver scontato la pena. Forse, ma è solo un’idea, sarebbe utile cambiare quell’aggettivo: la situazione dei nostri istituti penitenziari non è “allarmante”, ma “solita”. I soliti problemi, le solite criticità, il solito fallimento. Chissà, magari servirebbe a spostare quell’allarme dalle parole a qualche fatto.

*Consigliere +Europa/Radicali Italiani