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di Linda Laura Sabbadini

La Repubblica, 15 agosto 2023

Sovraffollamento e mancanza di servizi essenziali soprattutto per le donne. Siamo ancora qui a parlare di morti ingiuste nelle carceri. Di morti evitabili. Di morti prevenibili. I suicidi sono un fenomeno multidimensionale, non è mai corretto imputarli ad una unica causa. Ne ha parlato magistralmente Marzio Barbagli nel suo libro Congedarsi dal mondo (ed. Il Mulino), evidenziandone le diverse tipologie in differenti contesti culturali.

Il 2022 è stato l’anno con più suicidi nelle carceri. 85, pari al 15 per 10 mila detenuti. Circa 20 volte più della media. E questo succede sia perché le persone private della libertà hanno fragilità che spesso le rendono più a rischio; sia perché il contesto del carcere può spingere a togliersi la vita se non sono soddisfatti i bisogni primari di cura, di accoglienza e protezione delle persone, calpestando il rispetto della dignità umana. La nostra Costituzione è chiara al riguardo.

I detenuti conservano intatti i loro diritti all’interno del carcere. E devono essere accompagnati in processi rieducativi. Al 31 luglio 2023 la popolazione carceraria è pari a 57.749 unità. Il 31,2% non ha cittadinanza italiana. C’è sovraffollamento. Siamo sopra la soglia al 113%. Ma il problema c’è da decenni e non viene affrontato e risolto. È elevato il numero di persone in carcere per scontare condanne molto brevi: 1.551 devono scontare una pena (non un residuo di pena) inferiore a un anno, altre 2.785 tra uno e due anni. Che progetto di rieducazione si potrà mai predisporre con un tempo così limitato?

I detenuti sono, nella stragrande maggioranza, uomini. Le donne sono solo il 4,3%, 2.510 al 31 luglio di quest’anno. Sono invisibili, se ne parla poco. In questi giorni due si sono tolte la vita, a giugno un altro caso. I dati parlano chiaro: poche detenute, ma tanto disagio.

Come riportato nel Report dell’Associazione Antigone, che ha raccolto i dati nelle carceri femminili e nelle sezioni femminili, le donne presentano un disagio psichico maggiore degli uomini. Quelle con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4%. Il 63,8% fa regolarmente uso di psicofarmaci. Il 14,9% è in trattamento per tossicodipendenze. Gli atti di autolesionismo sono stati 31 ogni 100 donne, il doppio in percentuale di quelli degli uomini. E così i tentati suicidi: 3,7 ogni 100 detenuti negli istituti e nelle sezioni femminili.

Il livello di violenza nei reparti femminili è analogo a quello maschile per le aggressioni al personale (2,6 per 100 presenze), ma maggiore e pari a 7,7 aggressioni a danno di altri detenuti. Dunque, grande disagio. Eppure nonostante ciò negli istituti che ospitano donne è coperto solo il 77% della pianta organica, con in media un educatore ogni 87 detenuti. Negli istituti totalmente maschili anche peggio.

Le donne in maggioranza non risiedono in carceri femminili, ma in sezioni femminili di carceri maschili. La frammentazione in diverse piccole sezioni le svantaggia nell’accesso ai corsi di formazione o attività perché non essendo previste attività comuni con gli uomini, tranne messe e spettacoli, spesso non riescono a raggiungere un numero adeguato di richieste per attivare il servizio. Quanto ai servizi igienici in cella, secondo il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000, entro 5 anni dovevano essere “forniti di acqua corrente, calda e fredda, dotati di lavabo, di doccia” e con riguardo alle donne “in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet”. A distanza di 17 anni le docce sono presenti in cella nel 60% degli istituti che ospitano anche donne e il bidet nel 66%.

“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, così diceva Voltaire nel XVIII secolo. E noi siamo nel XXI. E siamo una democrazia, dovremmo preoccuparci molto di questa situazione e soprattutto agire senza indugio. Perché, come diceva il poeta e aforista Stanislaw Jerzy Lec, ebreo polacco, sopravvissuto alla Shoah, “nei paesi nei quali gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri neppure in libertà’”.