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di Franco Prina*

La Stampa, 19 agosto 2023

In questi giorni molto si è scritto sulla condizione delle persone ristrette negli istituti penitenziari e, come sempre accade in occasione di tragedie come quella dei suicidi delle due donne nel carcere di Torino, su cosa occorrerebbe fare per evitarle.

V’è una strada maestra: quella di incarcerare meno persone, sia depenalizzando alcuni reati, sia estendendo il ricorso a misure diverse dalla carcerazione. Sia e soprattutto prevenendo la commissione di reati da parte di tanti, in maggioranza persone fragili e senza sostegni sociali e psicologici. Una strada che tuttavia pochi sostengono, in particolare a livello politico, per l’impopolarità delle proposte a fronte di quello che è chiamato “senso comune penale” per cui a ogni reato, a volte a ogni sbaglio commesso per ragioni anche banali, deve corrispondere, come unica risposta dello Stato, la chiusura delle persone in quelle mura.

Chiunque svolga un ragionamento serio e non occasionale o, peggio, guidato dal mero interesse per il consenso, non può cessare di richiamare l’utopia di una società con meno carcere e più servizi (ma anche più solidarietà) che accompagnino le persone in difficoltà, consapevoli - la storia lo dimostra - che puntare tutto sulla privazione della libertà in luoghi che per loro natura, sempre, producono rabbia, sofferenza, esclusione, non produce minori reati e maggiore sicurezza.

Si tratta di un discorso lungo e complesso che non si può esaurire in poche righe e che attiene a scelte politiche di fondo. Nel qui e ora, pur lavorando a quell’orizzonte, è doveroso affrontare la realtà e avere cura di chi, in queste istituzioni dello Stato, vive quotidianamente la condizione di recluso o reclusa, come di chi è impegnato a gestirle. Per fare questo è fondamentale partire da un assunto e una prospettiva: il carcere è parte del contesto, del territorio in cui, nonostante le mura che ne fanno “un mondo a parte”, è collocato.

Come si disse tanti anni fa a proposito dell’istituto penale minorile, se il carcere è nella città allora la città deve essere nel carcere, impegnando tutte le istituzioni del territorio a dare un contributo alla vita e al funzionamento di una istituzione che solo con tante presenze e impegni dall’esterno può essere diversa da un mero contenitore di sofferenze e rabbie e realizzare l’obiettivo dell’art. 27 della Costituzione di favorire il reinserimento sociale di chi la pena ha scontato.

Che questo sia decisivo lo si constata in questi giorni, in negativo, denunciando le gravi carenze di impegno della sanità pubblica responsabile - in carcere - della salute in generale e di quella mentale in particolare. In questa prospettiva che vede l’istituzione penitenziaria come parte integrante del contesto sociale in cui è collocata, un contributo prezioso lo può dare anche l’Università, come da anni va facendo e come meglio e più potrebbe fare.

Tre sono i fronti di impegno, che sostanzialmente investono tutte tre le “missioni” che il sistema universitario è chiamato ad assolvere. Il primo luogo l’impegno a garantire il diritto allo studio, costituzionalmente tutelato, a chi ne abbia interesse. Lo studio - in tutti i gradi e livelli - e la cultura sono un potente strumento di riscatto, a partire dall’acquisizione di consapevolezza, di strumenti, di un titolo di studio spendibile nel momento del rientro in società. Su questo fronte da anni molte università italiane - quella di Torino fu la prima in Italia - sono seriamente impegnate. Dal 2018 sono riunite nella CNUPP, la Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari (organo della Conferenza dei Rettori) che conta oggi 43 Atenei che vedono quasi 1. 500 iscritti a corsi di laurea universitari di diverse aree disciplinari, in un centinaio di istituti penitenziari di tutta Italia.

Il secondo impegno è quello della ricerca, in particolare sulle difficoltà di chi in carcere vive e lavora, sulle problematiche e i meccanismi di funzionamento delle istituzioni penitenziarie, sui fattori che favoriscono o ostacolano il reinserimento. Molto anche in questo campo si è fatto. Vale come esempio, a Torino, una recente ricerca sulla situazione dei giovani adulti reclusi al Lorusso e Cutugno, curata da Garante comunale e Università che è all’origine di un progetto di attenzione specifica a questa tipologia di detenuti e detenute da parte dell’Amministrazione comunale. Ma occorre ampliare l’impegno coinvolgendo, oltre quelle tradizionalmente impegnate come le discipline giuridiche o sociologiche, altre e diverse discipline presenti nelle Università: la psicologia, la pedagogia, l’antropologia culturale, come pure, per la fondamentale relazione tra spazi e benessere (individuale e organizzativo), l’architettura. Impegnarsi a fare più ricerca - libera e critica - nelle carceri da parte delle Università significa offrire ai decisori e all’amministrazione uno strumento di conoscenza utile a cambiare dinamiche e a individuare gli ambiti in cui lavorare per gli indispensabili miglioramenti del sistema.

E infine il terzo terreno di impegno è quello - indicato con una espressione inglese come public engagement - che più ampiamente consiste nell’offerta alla comunità locale e alle sue istituzioni delle competenze e dei saperi che trovano sviluppo nelle Università. Qui davvero si può manifestare la volontà di un Ateneo di essere partecipe dei problemi e delle prospettive di sviluppo del contesto in cui è radicato. Nel caso specifico significa offrire le proprie competenze alle amministrazioni della giustizia e dell’esecuzione delle pene, ad esempio, per la formazione, l’aggiornamento, il sostegno psicologico e per la gestione degli eventi critici del personale. Ma anche organizzare iniziative ed eventi per tutta la comunità dei reclusi, favorendone la crescita culturale e il mantenimento dei legami con quanto succede nel mondo. E, infine, ma forse come impegno più rilevante, promuovere nella comunità di docenti e studenti e studentesse e più ampiamente sul territorio, una maggiore conoscenza e una profonda riflessione sul senso delle pene, sulle alternative alla carcerazione, sulla possibile prevenzione dei comportamenti reato e sull’importanza di favorire il reinserimento sociale di chi è stato condannato. Perché la questione del disagio e delle devianze non può essere “affare” da delegare solamente ad un apparato dello Stato, ma interpella tutte le istituzioni insieme alla società civile.

*Sociologo