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di Luigi Manconi

La Repubblica, 26 marzo 2024

I suicidi di guardie e detenuti ci dicono che la prigione si rivela un luogo di iniquità e disumanità. La classe politica non si rende conto del livello di crisi raggiunto dall’istituzione penitenziaria. Quando a suicidarsi sono i poliziotti penitenziari, la stessa sopravvivenza dell’istituzione appare gravemente compromessa. L’istituzione in questione è il sistema penitenziario italiano, la cui crisi risulta ormai irreversibile. Qualche settimana fa il sindacato della polizia penitenziaria Uilpa enumerava i suicidi avvenuti in carcere nell’anno in corso: allora erano ventisei (aumentati nel frattempo di due unità), dal momento che - molto opportunamente - venivano sommati quelli registrati tra i detenuti a quelli degli appartenenti alla stessa polizia penitenziaria: tre nei primi due mesi e mezzo del 2024.

Giustamente si è considerato il fenomeno dell’autolesionismo come avviene complessivamente in quella che Marco Pannella chiamava la “comunità penitenziaria”, in quanto - pur nella radicale differenza dei ruoli e talvolta nella reciproca ostilità degli stessi - la prigione tende ad avvicinare le condizioni di esistenza e di sofferenza di custodi e custoditi. Dunque, quel semplice calcolo aritmetico dice una cosa assai importante: è il carcere, la sua natura e la sua struttura e, in particolare, le sue attuali condizioni a rivelarsi un luogo di iniquità e disumanità.

Attualmente, a quanto è dato sapere sono più di una quindicina i procedimenti giudiziari già avviati, o in via di conclusione, sulle violenze a danno dei reclusi e su trattamenti che, in più casi, configurano la fattispecie penale della tortura. I dati sui suicidi vanno collegati a questo clima generalizzato di autoritarismo, e tendenzialmente, di esercizio della violenza. Il numero di detenuti che si tolgono la vita all’interno delle prigioni italiane è 17-19 volte superiore al numero di quanti lo fanno all’interno della popolazione nazionale, tra le persone libere. E secondo una stima attendibile di fonte sindacale, tra il 2010 e il 2020, circa cento poliziotti penitenziari si sono suicidati (il numero maggiore rispetto agli altri corpi di polizia). Altri dati, riportati da Milena Gabanelli e Andrea Priante sul Corriere della Sera, parlano di 26 appartenenti alla penitenziaria che si sono tolti la vita tra il 2019 e il 2023.

Questo mi rafforza nella convinzione che il carcere, com’è organizzato e com’è degradato, costituisca un sistema patogeno e criminogeno: ovvero un dispositivo che riproduce all’infinito i meccanismi della sopraffazione e che alimenta dipendenze, patologie, psicosi, depressione, autolesionismo e morte. È la stessa forma del carcere, la sua ingegneria e la sua architettura, il suo peso e la sua immanenza, il suo connotato concentrazionario a costituire quel blocco chiuso e immobile che è l’istituzione totale detta carcere.

Oggi, il sovraffollamento ha raggiunto le 60.637 unità a fronte di una capienza reale stimata intorno ai 47.000 posti effettivamente disponibili. E tale addensarsi e congestionarsi di corpi in spazi chiusi e ristretti ha effetti di privazione e di mortificazione della dignità sui reclusi, ma anche sugli agenti, limitandone i movimenti, esasperandone i comportamenti, acuendone lo stress. Di tutto ciò sembra avere scarsa consapevolezza la direzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ancor meno la classe politica, fatte salve alcune eccezioni. Non ci si rende conto, evidentemente, del livello di crisi raggiunto da questa delicatissima istituzione.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha parlato del tema con grande vigore, ma non si è registrata alcuna significativa reazione da parte della politica. Non è una novità, ahinoi. Nell’ottobre del 2013 l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, inviò un messaggio alle Camere: un formidabile documento interamente dedicato alle condizioni del sistema penitenziario. Napolitano richiamava la sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accertato la violazione, a opera dello Stato italiano e dei suoi apparati, dell’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta trattamenti disumani e degradanti, e chiedeva al Parlamento provvedimenti urgenti. Poi andava oltre.

Pur riconoscendo che le misure di clemenza nei confronti dei reclusi possono suscitare grande ostilità nell’opinione pubblica, Napolitano, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e “all’imperativo morale e giuridico di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”, riteneva giusto valutare l’opportunità di provvedimenti come l’amnistia e l’indulto. Quel messaggio presidenziale non ebbe nemmeno il bene di una discussione parlamentare. E ora siamo dove siamo. Passato un decennio da allora, per misurare come la situazione sia cambiata solo in peggio, basti osservare che quelle due parole - amnistia e indulto - sono diventate un tabù assoluto. Un indicibile da censurare e rimuovere.