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di Sergio D’Elia

L’Unità, 25 settembre 2023

Si è affacciato alla mia cella, triste perché un suo parente si è tolto la vita in carcere. Mi ha detto: “Basterebbe un gesto, poca cosa, a farci sentire ancora parte di questo mondo”.

Riceviamo questa lettera dal carcere di Parma e la pubblichiamo in questa settimana di settembre segnata - come ci ricorda la benemerita associazione “Ristretti Orizzonti” - da altri due suicidi, uno nel carcere di Sassari e l’altro in quello di Terni. Si aggiungono alla lista di quest’anno già funestato da 53 suicidi. Altri 66 detenuti sono morti in carcere per cause dette “naturali” (semmai è possibile definire tale quel che avviene in un luogo di pena, votato alla malattia, al dolore e alla sofferenza). La proposta di istituire la “Giornata delle vittime dietro le sbarre” ci è stata recapitata da un “detenuto noto” ma è stata concepita da un “detenuto ignoto”.

Occorre pure ricordare che, nei luoghi di privazione della libertà e, spesso, della dignità umana, a perdere la vita non sono solo i detenuti, ma anche i “detenenti” come diceva Marco Pannella, ispirato com’era da una visione del carcere quale posto abitato da una “comunità penitenziaria”, composta da un insieme, non da una somma, di parti, certo, diverse ma per lui e per noi mai da contrapporre. La lettera viene dal carcere di Parma, dove poche settimane fa è avvenuto un fatto molto triste che voglio ricordare. È venuto a mancare il Comandante Nicolino Di Michele, una perdita non solo per la sua famiglia ma anche per la comunità penitenziaria. Avendolo conosciuto, lo ricordo come un serio e professionale servitore dello Stato, testimone autentico del motto fondativo della Polizia penitenziaria: despondere spem munus nostrum. Colgo l’occasione per fare, anche pubblicamente, ai suoi cari e ai suoi colleghi le mie personali e dei miei compagni più sentite condoglianze.

Sergio D’Elia

***

Cheikh è un senegalese alto 2 metri e un sorriso che gli prende la metà della faccia. È così che si è presentato davanti alla mia cella oggi pomeriggio, giusto prima della conta. Ma nello sguardo aveva un’ombra di tristezza. A dirla tutta, era già da qualche giorno che non sentivo la sua risata risuonare nel corridoio. Ma il carcere è così, alti e bassi improvvisi e le ragioni sono sempre troppo complicate da spiegare. È rimasto zitto qualche istante, con la fronte nascosta dietro la parte superiore del cancello. Io mi sono avvicinato e lui ha chinato il capo. Intuivo che aveva qualcosa di serio da dirmi, era la prima volta che si interessava a me, oltre al solito buongiorno. Gli ho chiesto cosa aveva. Ha detto di un parente che si è tolto la vita in un carcere del Sud, “una persona a posto”, non se lo sarebbe aspettato.

“Finora ne sono morti tanti in carcere” ha cominciato a dire, “ma uno pensa sempre che siano poveretti con chissà quali problemi in testa, persone senza speranza. Adesso, invece, so che potrebbe toccare a chiunque e non ci dormo più. Tutte queste persone che muoiono e soffrono per niente, i familiari, ma non interessano a nessuno… Non ci avevo mai pensato prima, non così. Basterebbe un gesto, poca cosa, a farci sentire anche noi e i nostri ancora parte di questo mondo”. Chi non ha mai visto questo ragazzone, sempre ben disposto e spensierato, troverebbe normali le sue preoccupazioni. Insomma, si tratta pur sempre di un carcerato.

Ma a me Cheikh ha destato curiosità. Non capita tutti i giorni di sentire un detenuto esprimere preoccupazioni che vadano oltre la propria vicenda giudiziaria. Così l’ho incoraggiato a continuare. “Voglio dire, vedi, ci sono tante donne morte ammazzate, e giustamente fanno il giorno della donna, poi ci sono i poliziotti e allora si fa quello dei poliziotti, c’è anche la giornata degli animali ed è giusto commemorare anche loro. Serve a far capire, a dare forza a tutti per lottare contro le ingiustizie. Ma allora perché, tu che leggi tanto, non parli a qualcuno per fare anche la giornata del detenuto? Non sto dicendo dei criminali, ma di chi soffre e muore in galera”.

Una giornata per commemorare e condividere le sofferenze di chi piange un amico o un parente morto dietro le sbarre. È di questo che stava parlando Cheikh Niang. Lì per lì, sono rimasto interdetto e lui se n’è andato dondolando la sua testa ad alta quota. Mentre io cominciavo a fare avanti e indietro per la cella e non avrei più smesso se non mi fossi deciso a raccontarlo a qualcuno: e se fosse una proposta sensata?

Racconto questo episodio realmente accaduto e lo trasmetto tale e quale, perché credo sia il miglior modo per veicolare il messaggio o suggerire l’idea a coloro che la volessero prendere in considerazione: istituire la “Giornata delle vittime dietro le sbarre”. Mi rendo conto che il mio nome, di fronte a una simile iniziativa, potrebbe suscitare qualche perplessità in alcune istanze pubbliche. Per questa ragione, ci tengo a dire: non è mia, la proposta è di Cheikh Niang, senegalese dallo sguardo triste e il sorriso grande, detenuto nel carcere di Parma.

Cesare Battisti