di Sergio Locoratolo
La Repubblica, 21 ottobre 2024
“Le carceri rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte, ma la pena di morte che ammanniscono le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. Nel 1894, Filippo Turati, tra i fondatori del Partito socialista italiano, così commentava, in un discorso alla Camera dei Deputati, lo stato pietoso in cui versavano le carceri italiane. Da allora, oltre un secolo è trascorso. Inutilmente. Lo stato di insalubrità, degrado, insicurezza delle carceri si è andato moltiplicando e oggi con buone ragioni può dirsi, con Dostoevskij, che l’Italia, sotto questo profilo, è certamente fuori dai Paesi civili.
Bastino pochi esempi. Celle microscopiche che ospitano anche 9 posti letto, dai quali i detenuti, se volessero, non potrebbero neppure scendere contemporaneamente, per mancanza di spazio. Il pericolo di epidemie sempre dietro l’angolo, per cui anche un semplice raffreddore diviene motivo di allarme e di panico generalizzati. E così, ammassati come carne da macello, i 62.000 detenuti nelle carceri italiane crescono di anno in anno, di migliaia di unità. Attualmente ci sono circa 14.000 persone detenute in più rispetto ai posti disponibili. I due terzi dei quali finiscono in carcere per reati minori.
A Napoli, nel carcere di Poggioreale, i detenuti in esubero sono 700 e la struttura versa in condizioni di continua fibrillazione e di scontento generalizzato, nonostante il grande lavoro del personale di polizia e di tutti gli operatori. Che poi questo stato di fatto sconti una sorta di timore reverenziale che la classe politica avverte oggi nei confronti del tema della sicurezza, è fuor di dubbio. Quasi che intervenire a migliorare le condizioni dei detenuti costituisca ormai un cedimento ai principi securitari, che vedono al centro gli interessi dei cittadini.
Solo di quelli liberi, però. Senza pensare che la sicurezza è principio che regola la convivenza civile non solo del “mondo di fuori” ma anche del “mondo di dentro”, quello chiuso tra le quattro mura carcerarie. Dove, nel disordine e nella inevitabile confusione che regna incontrastata, spesso vige la legge del più forte. È dunque chiaro che lo stato vergognoso delle nostre carceri meriterebbe una politica in grado di offrire un approccio sistematico al tema. Un approccio che passi da alcuni provvedimenti ormai inevitabili.
L’introduzione del “numero chiuso” nelle carceri. “Si entra in carcere solo se c’è posto. Finché non si libera un posto, non si entra”. Parole sacrosante, quelle di Giuliano Amato. E ancora. Un piano strutturato di edilizia penitenziaria, un incremento delle risorse umane disponibili, la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena quando essa debba essere eseguita in strutture sovraffollate, il rafforzamento delle strutture deputate a trattare il disagio psichico, il potenziamento assoluto delle pene sostitutive della detenzione.
I dati dicono, infatti, che chi esce dal carcere incappa in una recidiva nel 70 per cento dei casi, che si abbassa al 15 per chi esce da istituti di pena alternativa. Infine, un generale atto di clemenza. Amnistia e/o indulto, concessi dal Parlamento a maggioranza assoluta, come disposto dall’art. 79 della Costituzione. Potrà non piacere a molti paladini della “giustizia fai da te”, ma questa è la strada. L’unica. Si calcola che con il solo indulto potrebbero uscire dal carcere circa 16.000 persone, per lo più imputati di reati minori e l’amnistia consentirebbe di alleggerire le strutture carcerarie rendendo, frattanto, possibile l’attuazione di misure strutturali in grado di evitare nuovi sovraffollamenti. E invece no. Il Governo risponde a questa sacrosanta esigenza con il cd. “decreto sicurezza”, in corso di valutazione al Senato dopo aver superato l’esame della Camera. Un provvedimento di stampo illiberale, che sembra fatto a posta per “vendicarsi” dei più deboli, con fattispecie giuridiche al limite, se non ben oltre, la costituzionalità. Che va assolutamente emendato in molti punti. Basti pensare alle misure carcerarie pensate per le donne in stato di gravidanza o con bambini molto piccoli. O il divieto per gli immigrati privi del permesso di soggiorno di acquistare una carta telefonica.
Per non dire della punibilità di ogni forma di protesta, anche attraverso forme di resistenza passiva o non violenta, per i detenuti e per gli immigrati accolti nei centri di accoglienza o di rimpatrio. Addirittura, diviene reato anche il “blocco stradale” attuato da singoli, gruppi o associazioni, anche in modo non violento, che prima era considerato mero illecito amministrativo. Nuove pene, nuove aggravanti, nuovi reati che sembrano pensati per alzare la scure dello Stato vendicatore essenzialmente contro i deboli, i diseredati, gli emarginati.
Nella stragrande maggioranza colpevoli di “reati minuscoli”, come li chiama qualcuno. È, perciò, quella del Governo, una risposta panpenalistica con venature reazionarie e populiste, contro cui la sinistra dovrebbe intraprendere una battaglia epocale in Parlamento. Perché gli ultimi non si difendono solo, e giustamente, battendosi per salari e diritti economici migliori, ma anche lottando per quanti marciscono nelle patrie galere con la sola speranza di poterne, un giorno, uscire vivi.